Strategie chirurgiche

STRATEGIE CHIRURGICHE NELLE SEPSI ADDOMINALI
Gabriele Sganga
Professore Associato di Chirurgia
Istituto Clinica Chirurgica
Università Cattolica del Sacro Cuore
Policlinico A. Gemelli Roma
e-mail:
gsganga@tiscali.it

    La mortalità della peritonite viene ancora oggi riportata con una percentuale estremamente variabile tra lo 0% ed il 70%. Questa ampia variabilità dipende da numerosi fattori tra cui l’età, l’organo di partenza della peritonite, la sua comparsa come patologia spontanea o come complicanza post-operatoria o post-traumatica, le malattie associate.

          Pur riconoscendo l’estrema validità delle innovative terapie di supporto in campo intensivologico per contrastare direttamente l’azione lesiva dei batteri e loro tossine o comunque per far fronte alle alterazioni metaboliche e bioumorali scatenate dai microorganismi e sostenute dalla azione dei numerosi mediatori e pur considerando gli avanzamenti tecnologici nel sostegno delle funzioni dei vari organi e apparati, non vi è dubbio che la vera e più efficace terapia etiologica delle infezioni intraaddominali è rappresentata da chirurgia e antibiotici.

E così come si assiste ad una continua evoluzione nelle caratteristiche e nello spettro antibatterico di nuovi antibiotici, certamente non mancano contributi innovativi nella chirurgia che coadiuvata da più sofisticati mezzi diagnostici e di monitoraggio si afferma come terapia primaria ed indispensabile nella trattamento delle sepsi intraaddominali, diventando sempre più estensiva e aggressiva nei confronti della noxa patogena settica nel tentativo di eradicarla e dominarla.

          In pratica la chirurgia oggi diventa ancor più arma terapeutica importante nelle infezioni intraaddominali e non solo riconosce la validità di trattamento precoce, ma non esita a considerarsi prioritaria in caso di insuccesso e/o mancato controllo della sepsi o addirittura nei pazienti assai critici in Multiple Organ Failure.

          Le strategie chirurgiche, oggi, comprendono tecniche molto aggressive (addome aperto) e metodiche poco o mini invasive, come il drenaggio per cutaneo o il trattamento laparoscopico. Di quest’ultima metodica non parleremo per la competenza assai specialistica (chirurgo laparoscopista), mentre faremo cenno al drenaggio percutaneo per le sue estese indicazioni e daremo spazio alle tecniche chirurgiche che prevedono una laparotomia.

CHIRURGIA TRADIZIONALE E NUOVE STRATEGIE

LAPAROTOMIA

          Il trattamento chirurgico convenzionale della peritonite si basa sulla iniziale laparotomia che va condotta tenendo presente i concetti fondamentali per il controllo della sepsi.

In questa ottica è particolarmente importante applicare rigide e accurate procedure atte ad eradicare il focolaio settico, a limitarne la sua estensione e a prevenirne le recidive.

Essa si basa sul drenaggio delle raccolte fluide, sul controllo o l’eradicazione dell’origine della contaminazione peritoneale, sull’asportazione e la pulizia accurata di tessuti necrotici e non vitali, sul lavaggio della cavità peritoneale con soluzione fisiologica, sul posizionamento di opportuni drenaggi, su una adeguata chiusura della parete addominale. Dopo resezioni intestinali la continuità enterica verrà garantita da esteriorizzazioni o anastomosi a seconda delle condizioni locali e generali.

Assai importanti al fine della sopravvivenza appaiono inoltre uno stretto monitoraggio delle funzioni vitali del paziente, delle condizioni locali, e una pronta diagnostica in caso di complicanze o di mancata risoluzione del processo settico.

L’accesso chirurgico deve essere sufficientemente ampio per facilitare l’esplorazione della cavità addominale ed assicurarsi sulla causa della infezione endoaddominale. Il tipo di incisione dipende dalla localizzazione del focolaio, mentre, nei casi di peritonite di origine non accertata, si preferisce una incisione mediana.

La toilette del focolaio settico deve essere accurata e deve prevedere la rimozione dei visceri causa di peritonite (colecistectomia, appendicectomia, resezione di colon, resezione ileale) o la loro riparazione (rafie), il drenaggio di raccolte ascessuali, la rimozione di tessuti non vitali o francamente necrotici, una accurata emostasi per evitare ematomi destinati ad infettarsi, il lavaggio abbonndante della cavità con soluzione fisiologica o antisettica (polivinilpirrolidone-iodio diluito al  10%).

Non possiamo certo descrivere le varie tecniche che si adoperano per la terapia chirurgica, ma si può sottolineare come un trattamento di eradicazione, toilette e rimozione definitiva della sorgente di sepsi rappresenta il proncipale presupposto per prevenire le recidive.

Non riteniamo efficace nel prevenire le recidive il lavaggio con soluzioni antibiotiche topiche diluite, mentre lavaggi continui utilizzando appositi drenaggi  sono utili nel trattamento di ascessi localizzati. Il lavaggio dell’intera cavità addominale attraverso drenaggi nel trattamento della peritonite diffusa non trova unanimi consensi e non viene routinariamente applicato.

Grande importanza va senz’altro data alla tecnica chirurgica adottata che mira in queste circostanze a prevenire ulteriori processi settici.

Così devono essere evitate anastomosi intestinali per l’elevato rischio di deiscenza favorendo invece le esteriorizzazioni.

La chiusura della laparotomia è un momento altrettanto importante e va fatto accuratamente per prevenire deiscenze della stessa o infezioni della ferita: vengono preferite chiusure in monostrato, nei casi più a rischio con l’utilizzo di “bridges”, mentre si tende a lasciare la ferita cutanea aperta o per lo più con pochi punti di accostamento o ancora, in casi di grave contaminazione, zaffata con garza iodoformica.

 RELAPAROTOMIA

Il precoce riconoscimento e trattamento delle complicanze post-operatorie risulta di cruciale importanza nel favorire il successo delle procedure chirurgiche e ridurre così la morbilità e la mortalità dei pazienti chirurgici.

Talvolta tali complicanze appaiono di particolare gravità (sepsi postoperatorie, sanguinamenti, occlusioni intestinali, ischemie) sino a poter mettere in pericolo la vita del paziente. Ed allora in molte condizioni cliniche si impone la necessità di un nuovo trattamento chirurgico (Reintervento, Relaparotomia nel caso della cavità addominale) sia a scopo diagnostico che terapeutico.

L’indicazione più frequente alla riapertura dell’addome operato è rappresentata proprio dalle sepsi intraaddominali.

Si tratta generalmente di pazienti in gravi condizioni, che richiedono trattamenti intensivi.

Il mancato controllo della sepsi porta inevitabilmente alle fasi fisiopatologiche di scompenso sino all’instaurarsi della multiple organ failure.

L’indicazione alla relaparotomia appare ovvia nei casi di sepsi intraaddominale documentata (ascessi, deiscenze) accompagnati da classica sintomatologia e da evidenti parametri bioumorali, microbiologici e fisiopatologici.

Oggi tuttavia, in virtù di sempre più sofisticati monitoraggi fisiopatologici, tale indicazione si va estendendo a pazienti con segni evidente di sepsi, anche in mancanza di riscontri strumentali di focolai di infezione.

Analogamente diversi Autori hanno proposto il concetto di ricercare chirurgicamente focolai settici intraaddominali occulti in pazienti con M.O.F.S. persistente nonostante le terapie etiologiche e di supporto.

          Le principali problematiche delle relaparotomie riguardano da un lato i rischi connessi alla loro esecuzione in pazienti generalmente critici e con prognosi grave, dall’altro la loro effettiva necessità ed utilità, ovvero la capacità di ottenere precocemente e con sufficiente certezza una diagnosi di complicanza che renda la relaparotomia effettivamente necessaria, “mirata”, e con prospettiva di ottenere un miglioramento della sopravvivenza.

          Mentre l’occlusione intestinale o il sanguinamento intraaddominale chirurgico sono complicanze abbastanza facili da diagnosticare e che beneficiano chiaramente di una relaparotomia, più difficili sono invece i problemi relativi alle relaparotomie motivate da una sospetta sepsi intraddominale.

          Le sepsi intraaddominali post-operatorie pongono delle serie difficoltà di diagnosi, per quanto riguarda il loro riconoscimento clinico precoce, l’individuazione della causa responsabile, nonchè il tipo, la gravità e l’estensione dell’interessamento peritoneale.

          Infatti molti dei segni clinici locali di sepsi peritoneale sono spesso mascherati dal dolore della ferita chirurgica, dall’ileo post-operatorio, e sono spesso di difficile valutazione per la presenza di drenaggi e stomie.

          I segni sistemici della sepsi sono spesso mascherati dalla risposta fisiopatologica al trauma chirurgico; ed infine anche la diagnostica radiologica per immagini presenta non poche difficoltà nella identificazione di sospetti focolai settici intraaddominali.

          A queste difficoltà diagnostiche si contrappone però la necessità di un intervento curativo che da un lato sia il più possibile precoce, “mirato”, ed efficace, e che dall’altro non costituisca di per se stesso un ulteriore fattore di rischio di mortalità per il paziente.

          La necessità di reintervenire radicalmente in caso di complicanze settiche deriva dall’evidenza che i pazienti con focolai settici occulti o non trattati tendono generalmente ad aggravarsi e sviluppare un quadro di MOFS, con le ovvie conseguenze prognostiche e la estrema difficoltà di ottenere una sopravvivenza in questa fase. Dunque l’intervento terapeutico deve essere precoce e di sicura efficacia curativa.

          Daltronde, poichè i pazienti con complicanze settiche intraddominali spesso presentano molti fattori di rischio (età avanzata, malnutrizione, alcolismo, epatopatia, cardiopatia, neoplasia) e spesso la sepsi viene riconosciuta solo in fase avanzata, va tenuto presente che il reintervento chirurgico costituisce di per se stesso un considerevole rischio di mortalità.

          Sulla scorta di queste considerazioni, per evitare i rischi connessi ai reinterventi laparotomici in anestesia generale, sono state sviluppate delle tecniche di drenaggio percutaneo dei focolai settici intraaddominali, con un progressivo allargamento delle indicazioni ed anche miglioramento dei risultati.

          Rimangono però di pertinenza chirurgica molti ascessi addominali complessi, quelli non aggredibili per puntura diretta, e quelli alimentati da una lesione o patologia d’organo che richiede una correzione chirurgica.

          Sono al di fuori dell’ambito del drenaggio percutaneo anche quelle sepsi intraaddominali postoperatorie a carattere diffuso, che non tendono a formare ascessi ben definiti, oppure formano ascessi piccoli e multipli. Queste rappresentano tutt’oggi un’ardua sfida diagnostica (nonchè terapeutica) per il chirurgo e per il radiologo, e vengono generalmente diagnosticate ad una relaparotomia esplorativa, o nei casi ad esito letale all’esame autoptico.

          Il problema consiste nel fatto che vi sono pazienti chirurgici (sottoposti ad intervento laparotomico per trauma o per patologia non traumatica) i quali sviluppano nel post-operatorio un quadro clinico ed umorale di sepsi sistemica più o meno conclamata, pur in assenza di segni sicuri di irritazione peritoneale, di formazioni ascessuali alla radiologia, di materiale purulento dai drenaggi addominali, nonchè negatività negli altri distretti suscettibili di focolai infettivi (polmone, vie urinarie, cateteri venosi centrali, ecc.). In tali circostanze viene considerato corretto l’atteggiamento clinico di considerare come causa della sepsi, fino a prova contraria, la presenza di uno o più focolai settici intraaddominali occulti.

          Dunque possono essere identificate due condizioni in cui si richiede un reintervento chirurgico per sepsi intraaddominale post-operatoria (relaparotomia).

          La prima comprende le peritoniti e gli ascessi ben documentati clinicamente e radiologicamente, con una causa anch’essa certa o comunque probabile, e non suscettibili di trattamento percutaneo. In questo caso si parla di relaparotomia “mirata” o “diretta” (“directed relaparotomy”) o ancora “a domanda”.

          La seconda circostanza è relativa ai casi di sepsi sistemica post-operatoria di cui l’origine intraaddominale è solo sospettata, ed anche ai casi di MOFS senza una causa evidente ed in cui si presume che il trigger sia un focolaio addominale occulto.

          Si parla allora di relaparotomia esplorativa, o “alla cieca”, o “empirica” (“nondirected”, “blind”, o “empiric relaparotomy” degli autori anglosassoni). In tal caso la relaparotomia ha innanzitutto un ruolo diagnostico nella ricerca ed identificazione di focolai settici occulti.

          Mentre nel primo caso le indicazioni sono del tutto ovvie, i rischi di una relaparotomia sono del tutto accettabili, e le problematiche riguardano principalmente le modalità di trattamento, nella “blind relaparotomy” le problematiche sono assai più importanti e delicate in quanto coinvolgono la stessa accettabilità dell’indicazione chirurgica.

          Infatti va fatto un bilancio tra la probabilità che l’esplorazione laparotomica risulti positiva, con gli effettivi benefici (sopravvivenza) che si otterrebbero in tal caso, ed i rischi (mortalità) connessi invece ad una relaparotomia eseguita in pazienti generalmente critici e risultata negativa.

          Nei pazienti con sepsi intraddominali post-operatorie particolarmente gravi ed estese, in cui si impone l’urgenza e la necessità di un reintervento addominale, la toilette peritoneale, il drenaggio delle raccolte ascessuali e la riparazione della causa della sepsi, eseguiti all’atto della relaparotomia, possono non essere sufficienti per risolvere completamente lo stato settico dell’addome, con conseguente riformazione di raccolte ascessuali, persistenza della gravità clinica o ulteriore peggioramento del paziente, e necessità di eseguire ulteriori reinterventi.

          Per il trattamento dei questi casi é stata proposta la tecnica delle relaparotomie esplorative programmate (“scheduled relaparotomy”, “etappenlavage”). L’indicazione all’impiego di questa metodica viene posta già al momento della prima laparotomia, sulla base della presenza di una grave peritonite considerata ad alto rischio di recidiva post-operatoria o sulla base di evidenti segni di infezione residua al termine della prima esplorazione.

Le revisioni della cavità addominale vengono programmate ogni 24-72 ore, in considerazione delle condizioni generali del paziente, procedendo al drenaggio di tutte le raccolte fluide purulente ed alla rimozione dei tralci di fibrina peritoneali. In una parola tale tipo di laparotomia rappresenta una forma di “second look” paragonabile a quello che si effettua per verificare la vitalità dell’intestino residuo dopo resezioni per patologia ischemica.

La chiusura della parete addominale può essere realizzata in maniera convenzionale oppure adottando tecniche di chiusura temporanea con suture cosiddette ritentive come i “bridges”, dei veri ponticelli di plastica che consentono di accostare con pochissimi punti e con poca tensione i margini della ferita laparotomica.

          Risulta particolarmente vantaggioso, per il minore traumatismo chirurgico sulla parete addominale, l’impiego di reti dotate di cerniera (zipper).

          Questi reinterventi vengono interrotti quando si osserva una cavità peritoneale macroscopicamente pulita, libera da versamenti francamente purulenti o da tessuti necrotici.

          I risultati riportati sono soddisfacenti, con una mortalità variabile dal 23% al 32%, in situazioni comunque di elevatissimo rischio.

          Gli svantaggi sono rappresentati dalla necessità di ripetute anestesie generali e dai ripetuti traumatismi della parete addominale con pericolo di sanguinamenti.

 TRATTAMENTO “APERTO”

          La tecnica dell’addome aperto (“open abdomen”) è nata alla fine degli anni ’70, quando Steinberg su 14 pazienti operati per grave peritonite lasciò la ferita laparotomica aperta per 72 ore, con sutura differita, ottenendo una sopravvivenza di 93%.

Vi sono varie modalità e varianti tecniche del trattamento “aperto”.

          La tecnica più semplice, anche se presenta le maggiori problematiche, consiste nel lasciare la ferita laparotomica completamente aperta, coprendola semplicemente con una medicazione sterile (laparostomia).

          La tecnica più utilizzata è quella che prevede la sutura lungo tutti i borsi della breccia laparotomica di una rete di materiale biocompatibile non riassorbibile come il prolene, il marlex, o il mersilene (tecnica della rete). La rete si comporta come una barriera permeabile, con tutti i vantaggi dell’effetto barriera e dell’effetto permeabile. L’effetto barriera impedisce l’eviscerazione del contenuto addominale e non ostacola la meccanica respiratoria; la permeabilità della rete consente invece la trasudazione attraverso di essa degli essudati peritoneali e la fuoriuscita di eventuali secrezioni o perdite fluide patologiche. Le riesplorazioni chirurgiche della cavità peritoneale possono essere effettuate incidendo la rete sulla linea mediana e risuturando la stessa al termine dell’intervento.  Hay è stato il primo ad utilizzare la tecnica della rete di Marlex e delle esplorazioni multiple ottenendo una mortalità del 35% contro il 66% dei controlli storici.

          Per facilitare la riapertura e chiusura della rete nelle operazioni di revisione periodica dell’addome (scheduled relaparotomy) è possibile utilizzare una “cerniera lampo” (cerniera laparotomica, zipper) suturata alla rete, o direttamente ai bordi della laparotomia.

          Le esplorazioni giornaliere con l’apertura della rete consentono di eseguire un’ispezione completa dell’addome, la rimozione delle secrezioni raccolte, il lavaggio di ogni recesso, l’evacuazione di ulteriori focolai settici, il controllo delle aderenze.

          Il normale processo di guarigione dell’addome “aperto” si realizza attraverso la formazione, al di sotto della rete, di un denso tessuto di granulazione. Questo rende progressivamente meno tesa la rete e si sostituisce ad essa nel tenere accostati i bordi della laparotomia; a questo punto la rete può essere rimossa. La cicatrizzazione procede con esito in parziale o totale riepitelizzazione a partire dai bordi della ferita ed in un laparocele più o meno esteso.

          Gli interventi definitivi, sia per la chiusura di stomie e ricanalizzazioni, sia per risolvere il laparocele, incontrano sorprendentemente una limitata presenza di aderenze tenaci se vengono condotti a distanza di tempo (6 mesi-1 anno) dal trattamento iniziale.

          Accanto al trattamento “aperto” totale, in cui la ferita laparotomica viene lasciata completamente aperta e ricoperta con garze o con Steridrape, oppure viene applicata una rete con o senza cerniera, vi sono altre forme di trattamento aperto di tipo “confinato”, in cui un recesso peritoneale viene isolato dal resto della cavità peritoneale e viene messo in comunicazione con l’esterno.

          Questa tecnica sembra particolarmente indicata nella terapia della necrosi pancreatica infetta/ascesso pancreatico (es. marsupializzazione della retrocavita degli epiploon).

          Il trattamento “aperto” può essere applicato nel distretto retroperitoneale (trattamento aperto del retroperitoneo), per il trattamento delle gravi necrosi pancreatiche infette. La tecnica consiste nel praticare delle ampie incisioni chirurgiche sui fianchi estese in profondità nello spazio retroperitoneale che in questo modo si trova ad essere facilmente ed ampiamente drenato all’esterno

CONCLUSIONI

          Non vi è dubbio che l’approccio chirurgico per trattare le gravi infezioni intra-addominali deve essere radicale e beneficiarsi nei casi selezionati di relaparotomie e laparostomie.

          La terapia antibiotica ormai utilizzata in maniera più razionale che in passato non sembra rappresentare più un punto critico, così come alcune tecniche alternative (lavaggio peritoneale post-operatorio continuo, radical peritoneal debridment) restano ancora controverse e quindi non considerate indispensabili.

          Le raccomandazioni che possiamo ricavare dall’esperienza illustrata si possono, infine, così riassumere:

1) Riconoscere il più presto possibile un focolaio settico intra-addominale.

2) Intervenire chirurgicamente il più presto possibile, in ogni caso dopo la stabilizzazione cardio-vascolare del paziente.

3) Esplorare la cavità addominale, eliminare la causa e tutti i focolai settici e necrotici, drenare le raccolte purulente.

4) Evitare ulteriore contaminazioni peritoneali favorendo diversioni, esteriorizzazioni e controllando il drenaggio di pus o di fistole.

5) Lavare accuratamente con soluzioni antisettiche.

6) Decomprimere in caso di marcati quadri occlusivi.

7) Usare antibiotici per via endovenosa.

8) Effettuare relaparotomia urgente in caso di sepsi clinica ed evidenza di peritonite, deiscenza, raccolta, ostruzione.

9) Effettuare trattamenti “aperti” negli ascessi pancreatici multipli dopo pancreatite acuta e nelle gravi peritoniti generalizzate con multipli focolai settici.

10) Considerare con giudizio la relaparotomia nella M.O.F.S., se non vi sono evidenze radiologiche di focalità settica intra-addominale.

           Da quanto esposto appare evidente che nonostante i numerosi sviluppi tecnologici, farmacologici, e nonostante i progressi nel campo del monitoraggio e della terapia, la sepsi nel paziente chirurgico rappresenta ancora oggi la pió gravosa causa di morbilità e mortalità.

          E questo in relazione alle notevoli estensioni delle indicazioni alla chirurgia, che sempre più prepotentemente si qualifica come possibilità terapeutica in patologie un tempo escluse da tale opportunità e si ä estesa a pazienti anziani e con patologie associate, nonché all’utilizzazione di sistemi di monitoraggio e cura più invasivi, all’affinamento delle tecniche di rianimazione, alla selezione di microorganismi sempre più resistenti e non ultimo alla compromissione immunitaria conseguente non solo a patologie di base o associate ma anche al prolungarsi della malattia e allo stesso stress chirurgico.

          Nella cura delle sepsi intra-addominali la chirurgia ha sempre rappresentato il mezzo terapeutico pió radicale e definitivo: tale procedure ovviamente devono essere sostenute da un moderno monitoraggio fisiopatologico e da altrettante terapie complementari atte a correggere ogni tipo di alterazione instauratasi.

          Le nuove acquisizioni fisiopatologiche, le maggiori possibilità di sopravvivenza, le migliori capacità diagnostiche e terapeutiche hanno imposto alla chirurgia interventi sempre più aggressivi riconoscendole il ruolo di principale mezzo per la eradicazione e la risoluzione di sepsi che altrimenti fatalmente evolverebbero verso la Multiple Organ Failure e la morte.

          E così la Chirurgia, riconoscendo il ruolo, non esita a considerare laparotomie in pazienti critici, non indietreggia di fronte alla necessità di reintervenire più volte (relaparotomie) pur di controllare l’evento settico o addirittura in casi di difficile possibilità di eradicazione non desiste nel tentativo di consentire il più efficace drenaggio sino a realizzare il drenaggio aperto dell’intera cavità addominale (laparostomie) o di parti di essa (marsupializzazione).

          Infine non esita a considerarsi ultima possibilità terapeutica, sebbene ancora con risultati non univoci, nella Multiple Organ Failure (relaparotomie nella MOF), dimostrando definitivamente la possibilità di intervento anche in pazienti grandemente a rischio, purché ci si aspetti benefici terapeutici.

          Sebbene questa problematica sia ancora lontana da una risoluzione definitiva, dobbiamo comunque ammettere che sono stati ottenuti apprezzabili progressi in questo campo.

          Pertanto, anche sulla base della nostra esperienza, possiamo concludere che la cavità peritoneale diventa sempre più chirurgicamente drenabile, benché non si possa ancora del tutto smentire quanto affermato da John Yates nel 1905: “drainage of hite general peritoneal cavity is physically and physiologically impossible” (Yates JL: An experimental study of the local effects of peritoneal drainage. Surg Gynecol Obstet, 1905, 1: 473-492).

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