Trattamento intraospedaliero: Triage del trauma

IL TRIAGE NEL TRAUMA GRAVE: COSA DICONO E COSA NON DICONO I “SACRI TESTI”
Giuseppe Nardi (1), Emiliano Cingolani, Cosimo Freni, Ivo Tesei(1), Angelo Pacifici(1), Paolo Beltramme(1), Lisanna Luddi, Giovanni Raselli, Concetta D’Agostino, Carla Locchi
(1) U.O. Shock e Trauma Azienda Ospedaliera S. Camillo-Forlanini Roma

INTRODUZIONE

Mortalità ed esiti invalidanti conseguenti a traumi gravi risentono in modo estremamente rilevante della qualità del soccorso preospedaliero ed ospedaliero e in particolar modo di fattori organizzativi. Negli ultimi anni l’attenzione alle problematiche cliniche ed organizzative relative alla patologia traumatica è andata aumentando: si è assistito all’affermarsi di modelli di macro-organizzazione basati sul principio della “centralizzazione[1]” dei traumatizzati gravi, unitamente allo sviluppo di  linee guida per la gestione clinica della fase pre-ospedaliera e della prima fase ospedaliera.

Sulla scorta delle esperienze Nord-Americane, in alcuni Centri pilota è stata rivoluzionata la metodologia di gestione  del trauma grave grazie alla formazione di “trauma teams” multidisciplinari altamente specializzati e a programmi educativi volti alla diffusione delle competenze nel settore. L’utilizzo di questo modello organizzativo si è dimostrato efficace, anche nella nostra realtà, ed ha permesso di  migliorare la qualità della gestione con impatto favorevole sull’outcome dei pazienti[2].

L’utilizzo di una strategia basata sull’impiego di team multidisciplinari impone la definizione di percorsi diagnostico/terapeutici sotto forma di linee guida condivise e scritte. Le linee guida devono affrontare in modo concreto ed efficace alcuni nodi organizzativi cruciali per la corretta gestione dell’intero processo, uno di questi è il triage.

Il triage è uno strumento utilizzato con l’obiettivo di identificare rapidamente un gruppo di pazienti con una elevata probabilità di presentare  lesioni gravi e ai quali devono pertanto essere destinate risorse tecnologiche e professionali adeguate. Nella fase preospedaliera l’obiettivo del triage è l’individuazione dei feriti da indirizzare verso strutture specialistiche con funzioni di trauma center. E’ ampiamente documentato il fatto che l’accesso immediato a ospedali in grado di assicurare, senza necessità di ulteriori trasferimenti, la gestione del trauma nella sua complessità, si associa ad un outcome migliore a parità di gravità delle lesioni anatomiche. Tuttavia perché questa ipotesi possa realizzarsi efficacemente è necessario che esista un sistema di soccorso pre-ospedaliero con personale qualificato in grado di stabilizzare i pazienti con funzioni vitali compromesse, garantendo un trasporto sicuro. In caso contrario un incremento dei tempi di spostamento o il protrarsi della fase pre-ospedaliera comporterebbe rischi aggiuntivi inaccettabili.

Il triage pre-ospedaliero si basa su quattro gruppi di criteri criteri:

1.         Alterazione dei parametri clinici. Feriti che presentino almeno uno dei seguenti sintomi:  GCS < 13, Pressione arteriosa sistolica £ 90, frequenza respiratoria alterata (> 29 o < 10)  o  il rilievo di una SpO2 £ 90,  hanno una probabilità elevata di avere un trauma maggiore.

2.         Lesioni anatomiche rilevanti di immediata identificazione: ferite penetranti alle radici degli arti, al tronco o alla testa, fratture di due o più ossa lunghe, volet costale o sternale, emorragie rilevanti in sedi non comprimibili (base cranica, volto…), amputazioni prossimali. A questi criteri di rilievo immediato, possono essere associati altri segni clinici la cui identificazione richiede un esame obiettivo rapido secondo uno schema preciso [3] (secondary survey): segni di frattura della volta o della base cranica, deficit motori e/o sensitivi, alterazioni rilevanti della ventilazione, enfisema sottocutaneo, dolore violento alla compressione delle creste iliache, assenza dei polsi periferici.

3.         Criteri dinamici basati su valutazioni statistiche dell’energia cinetica assorbita dal corpo a seconda del meccanismo di lesione: caduta da oltre 3 metri, eiezione da un veicolo, arrotamento, presenza di deceduti nello stesso veicolo, deformazione delle strutture tale da determinare la necessità di estricazione prolungata, ….

4.         Criteri anamnestici e anagrafici: terapie in atto che aumentino i rischi di emorragia (anticoagulanti) o patologie note che espongano il paziente ad un aumentato rischio di complicanze gravi. I bambini di età minore di 5 anni vittima di incidenti non banali, sono considerati potenzialmente a rischio in considerazione della difficoltà di interpretazione dei segni clinici, delle ridotte riserve funzionali e del fatto che essendo il trauma grave in età pediatrica fortunatamente raro, pochi centri hanno sufficiente esperienza per trattarli in modo adeguato.

Il reperto di uno o più di questi parametri da parte di un’equipe di soccorso pre-ospedaliero dovrebbe attivare un processo che preveda l’indirizzamento del paziente ad una struttura in grado di offrire un trattamento adeguato. La struttura di destinazione dovrà contestualmente ricevere un allarme preventivo in modo tale che possa essere  predisposta  la presa in carico del ferito.

Il triage pre-ospedaliero si basa per definizione su criteri di elevata sensibilità, ma di bassa specificità. All’ingresso del paziente in ospedale il triage deve pertanto essere ripetuto, anche se molti dei parametri già considerati sono comunque importanti  per definire l’iter diagnostico successivo.

Il triage ospedaliero:

Le linee guida del  nostro centro[4] prevedono un approccio diagnostico standardizzato per tutti i pazienti considerati ad alto rischio. Di questo gruppo fanno parte anche tutti i feriti che abbiano subito un incidente con dinamica maggiore, indipendentemente dal quadro clinico. Questi pazienti sono presi in carico dal trauma team, di cui l’anestesista rianimatore è il team leader, e sottoposti a un percorso diagnostico che include una TAC total-body. Oltre il 20% dei pazienti di questo gruppo presenta lesioni importanti non sospettabili sulla base dei soli parametri clinici.

L’obiettivo del triage ospedaliero è l’individuazione dei pazienti da destinare, in funzione della probabilità dell’esistenza di lesioni gravi,  a processi diagnostici e terapeutici che per l’elevato consumo di risorse, non possono essere utilizzati in modo estensivo.

Il triage ospedaliero si basa, oltre che sui parametri già considerati, anche sui risultati di un esame obiettivo più accurato e completo e di alcuni test diagnostici rapidamente eseguibili in Pronto Soccorso.

Negli ultimi anni l’attenzione è stata focalizzata su alcune condizioni cliniche gravate da elevata mortalità, che richiedono immediato riconoscimento in fase di triage al fine di garantire una gestione corretta della prima fase di trattamento.

  Contusione miocardia: un killer misconosciuto.

I gravi traumatismi del torace si associano frequentemente ad una compromissione della funzionalità cardiaca. Una disfunzione miocardica può verificarsi sia come conseguenza di un trauma diretto interessante il cuore, sia in seguito al rilascio di neuromediatori che agiscono a livello dei vasi coronarici e del circolo polmonare determinando fenomeni di ischemia relativa e di sovraccarico di pressione a livello delle cavità destre. L’interessamento cardiaco da trauma può manifestarsi oltre che come alterazione della capacità contrattile, anche con la comparsa di aritmie minacciose e può essere responsabile di una sintomatologia spesso mal interpretabile che va dall’ipotensione all’arresto cardiaco improvviso [5].

I pazienti che presentano una contusione miocardica (BCT) devono essere identificati subito dopo l’ammissione e sottoposti a monitoraggio intensivo [6]. Il trauma del miocardio comporta infatti un notevole aumento della morbidità e della mortalità perioperatoria. In assenza di un corretto trattamento e di una stretta sorveglianza, la disfunzione miocardica da trauma è gravata da una elevata mortalità.

La diagnosi di BCT non si basa su criteri universalmente accettati ed è spesso difficile da confermare. Alcuni studi hanno dimostrato che la contusione miocardica si associa ad un incremento della troponina I, e che la quota di troponina ematica è proporzionale all’energia correlata al trauma. Tuttavia, il valore predittivo del test deve ancora essere stabilito. La troponina ha probabilmente una buona sensibilità, ma la specificità non è elevata in quanto un rilascio di troponina si verifica anche a seguito di alterazioni della perfusione miocardica secondarie allo shock o al rilascio di catecolamine. Inoltre la sensibilità della troponina come marker di contusione miocardica è correlata con il timing del prelievo. In uno studio sperimentale condotto nel nostro Centro abbiamo sottoposto sistematicamente a dosaggi seriati di troponina tutti i pazienti con trauma toracico clinicamente rilevante e che presentavano almeno uno dei segni clinici di allarme per BCT (fratture di 4 o più coste, alterazione dell’ossigenazione (P/F < 200), evidenza di contusione polmonare al radiogramma in Pronto Soccorso, presenza di emo-pneumotorace). La conferma della diagnosi di BCT era basata sui dati dell’ecografia cardiaca, sul reperto di aritmie minacciose o su un’evidenza di bassa gittata attraverso monitoraggio emodinamico con catetere di Swan Ganz. Su 31 pazienti consecutivi studiati, 6 (20%) hanno presentato un quadro clinico compatibile con la diagnosi di BCT. Le determinazioni seriate della troponina, hanno permesso l’identificazione del trauma miocardico in tutti i casi, con una sensibilità del 100% alla 8° ora, ma con una sensibilità insufficiente alla prima determinazione eseguita al momento dell’ammissione.

Sulla base di questi dati preliminari la troponina è stata introdotta come test di screening per l’identificazione di una contusione miocardica nei pazienti ad alto rischio. In presenza di un incremento della troponina, il paziente viene considerato ad alto rischio e seguito in ambiente intensivo.  Questa strategia ha permesso di riconoscere rapidamente e di gestire secondo un iter adeguato, pazienti che sarebbero altrimenti stati destinati ad aree a bassa intensità assistenziale. In alcuni di questi casi il quadro clinico successivo è stato caratterizzato da complicanze improvvise che, in assenza di una corretta identificazione dei fattori di rischio, avrebbero potuto determinare conseguenze gravissime. La frequenza di BCT nei pazienti con segni di trauma toracico importante si è confermata più elevata dell’atteso.

 Fratture complesse del bacino

L’identificazione e il trattamento d’emergenza delle  fratture complesse del bacino rappresenta uno degli aspetti più critici dell’intero processo di gestione dei traumatizzati gravi. Le fratture  che si accompagnano a significative alterazioni del cingolo pelvico determinano spesso lesioni concomitanti dei vasi arteriosi e venosi, che possono portare a morte per emorragia incontrollabile. I pazienti che presentano evidenze radiografiche di fratture complesse devono essere trattati in ambiente intensivo data la frequenza elevata di complicanze emorragiche e di coagulopatia da consumo. Molti di questi pazienti sono inizialmente stabili ed è proprio attraverso il triage intra-ospedaliero che devono essere identificati al fine di una corretta gestione. Nei pazienti che dimostrano una riduzione del valore dell’emoglobina già in fase iniziale, la compressione circumferenziale del bacino anche grazie alla semplice fasciatura della pelvi con un lenzuolo (wrapping) può rappresentare una manovra efficace per favorire l’emostasi. La stabilizzazione chirurgica  della pelvi con fissazione interna, può permettere un buon controllo dell’emorragia venosa, ma è un intervento complesso e di lunga durata che viene raramente effettuato in emergenza se non in pochi centri specializzati. L’utilizzo di  fissatori esterni può consentire di ottenere la temporanea stabilizzazione della porzione anteriore del cingolo pelvico favorendo l’emostasi [7]. Tuttavia in un certo numero di pazienti l’emorragia può non essere controllabile con queste metodiche. Il sanguinamento persistente è spesso dovuto alla lacerazione dei vasi pelvici da parte di frammenti ossei o allo strappamento di questi in seguito alle forze che determinano la distorsione dell’intero cingolo pelvico. Tipico esempio di lesione radiograficamente poco appariscente, ma accompagnata in genere da gravi emorragie dovute alla lacerazione dei plessi venosi, è la cosidetta ’”apertura a libro del bacino”. In questo caso la forza applicata determina una diastasi della sinfisi pubica pube alla quale viene abitualmente data scarsa importanza in assenza di altre fratture ossee. Viceversa alla separazione delle branche ischio-pubiche che compongono la sinfisi, corrisponde spesso lo strappamento dei plessi vascolari a livello delle articolazioni sacro-iliache, che determina una imponente emorragia retroperitoneale.

I tentativi di controllare l’emorragia mediante emostasi chirurgica è in genere inefficace ed anzi, il venir meno dell’effetto compressivo della tensione addominale in seguito all’apertura dell’addome, può essere causa di aggravamento dell’emorragia ed accelerare il decesso. Nei pazienti con traumi del bacino che continuano a presentare un quadro di instabilità emodinamica è indicata l’immediata esecuzione di una angiografia dei vasi pelvici con eventuale embolizzazione dei foci emorragici. Attualmente questo approccio è il trattamento che offre i migliori risultati. Wong[8] ha recentemente pubblicato uno studio dove l’impiego  precoce dell’embolizzazione in un gruppo di 17 paziente con fratture del bacino e grave compromissione emodinamica, si è dimostrato efficace nel controllare l’emorragia in tutti i casi trattati. Ciò nonostante alcuni pazienti sono deceduti (mortalità 17.6%). Si è osservata una correlazione tra il ritardo con cui è stata eseguita l’angiografia e la mortalità (6.0 ore nei deceduti vs 2.3 nei sopravvissuti). All’aumentare dell’intervallo tra ingresso del paziente ed embolizzazione aumenta anche la quantità di sangue e plasma che devono essere trasfusi.

Vi sono ancora controversie sulla necessità o meno di stabilizzare la pelvi con i fissatori prima dell’embolizzazione[9] [10]. Se l’applicazione preventiva dei fissatori può ridurre il volume della pelvi contribuendo all’emostasi dei vasi venosi, qualora vi sia un sanguinamento arterioso in atto questa manovra risulta spesso poco efficace e può comportare ritardi nell’esecuzione dell’angiografia.

Nella nostra pratica clinica sottoponiamo sempre ad immediata angiografia dei vasi pelvici tutti i pazienti emodinamicamente instabili e che presentino fratture complesse del bacino oppure un ematoma retroperitoneale importante evidenziato dalla TAC, anche in assenza di lesioni ossee maggiori. L’utilizzo precoce dei fissatori esterni rappresenta anche nella nostra realtà un bridge verso l’intervento di stabilizzazione definitiva con osteosintesi interna, che può essere così dilazionato fino alla risoluzione delle patologie associate (cranica, toracica ed addominale) che mettono a rischio la vita del paziente. Negli ultimi 12 mesi sono stati sottoposti ad angiografia ed embolizzazione 10 pazienti con fratture del bacino. In un caso l’embolizzazione ha dovuto essere ripetuta dopo 6 ore. La procedura ha avuto successo in tutti i casi e tutti i pazienti sono sopravvissuti.

 Frattura delle ossa lunghe nel politraumatizzato

Uno dei problemi più complessi da affrontare nell’organizzazione del processo di gestione dei traumatizzati gravi è rappresentato dalla definizione della strategia di trattamento dei pazienti con  fratture delle ossa lunghe e fratture complesse del bacino, in particolare per quanto riguarda il timing della stabilizzazione ortopedica. I traumatizzati gravi con fratture degli arti rappresentano una percentuale elevata del totale (oltre il 30% secondo i dati dello studio epidemiologico del Friuli[11]), e comportano rilevanti problematiche decisionali data la frequente coesistenza delle lesioni ortopediche con quelle degli altri distretti ed in particolare del capo e del torace. I criteri di triage  abitualmente  raccomandati prevedono che la presenza di due o più fratture di ossa lunghe sia considerato come criterio di sospetto per trauma maggiore ed induca ad indirizzare i feriti ad ospedali con caratteristiche di trauma center

Studi recenti hanno evidenziato che l’incidenza di fratture di femore negli incidenti stradali aumenta in modo lineare con l’aumento della forza di impatto. La presenza di una frattura di femore è correlata direttamente con la modificazione acuta della velocità ed è stato dimostrato che l’incidenza di fratture è inferiore al 4% per variazioni di velocità inferiori a 25 Km / hr mentre sale al 20% per variazioni di  50 Km / hr ed oltre. I pazienti vittima di incidenti stradali e che hanno una frattura di femore hanno un’incidenza significativamente maggiore di pneumotorace e lesioni intestinali; anche l’incidenza di emorragie intracraniche è superiore, anche se non in modo statisticamente significativo.[12] Adili[13] ha recentemente osservato che nei pazienti con trauma grave, la frattura bilaterale dei femori si associava ad un lieve incremento dell’ ISS medio (32.0 vs. 29.2), ma in un aumento di tre volte della mortalità rispetto ai pazienti con frattura monolaterale (33.0% vs. 10.7%).

Va inoltre tenuto presente che i pazienti con fratture ortopediche hanno in genere un iter di ricovero funzionale molto più lungo e complesso e richiedono un tempo di degenza superiore rispetto ai pazienti con analogo ISS, ma che non presentano fratture degli arti. Inoltre anche l’outcome funzionale a 12 mesi dal trauma risulta peggiore[14]. La corretta gestione di questi pazienti può comportare inizialmente un maggior fabbisogno di risorse, ma si traduce in un risparmio finale in relazione alla riduzione dei tempi complessivi di degenza e di riabilitazione.

Le prime segnalazioni che il trattamento precoce delle fratture poteva ridurre la frequenza di embolia adiposa risalgono ad oltre 20 anni or sono[15]. Alcuni anni più tardi Seibel[16] dimostrò un’associazione tra il numero dei giorni con l’arto in trazione e lo sviluppo di insufficienza respiratoria. L’impiego della trazione scheletrica nei traumatizzati gravi è stato riconosciuto essere il maggior fattore di rischio per lo sviluppo di insufficienza  multiorgano (MOF) e sepsi. La trazione causa una prolungata immobilizzazione in posizione supina e limita le possibilità di nursing e di fisioterapia,  determinando inoltre un maggior consumo di sedativi e narcotici. I vantaggi del trattamento precoce sono stati confermati anche da studi randomizzati, che hanno dimostrato come nei pazienti sottoposti a stabilizzazione ritardata delle fratture vi fossero più casi di polmonite, ARDS e di  embolia adiposa[17], con conseguente aumento della degenza e dei costi.

Il problema ancora aperto riguarda i pazienti che presentano fratture complesse associate a gravi lesioni encefaliche e/o polmonari, perché in questo caso è più difficile stabilire quale sia il timing ottimale del trattamento. Alcuni Autori  hanno espresso la preoccupazione che la stabilizzazione immediata (entro 12 ore) delle fratture possa associarsi ad un peggioramento dell’outcome neurologico a seguito dell’ ipotensione arteriosa che può essere causata da eventuali emorragie peri-operatorie o alla difficoltà di controllare la pressione endocranica durante un intervento prolungato[18]. In una revisione di 171 pazienti con trauma cranico grave sottoposti a stabilizzazione ortopedica di fratture degli arti inferiori Scalea[19] non ha però osservato alcuna relazione tra la stabilizzazione precoce ed un possibile peggioramento del quadro clinico o un aumento di mortalità.

Altri Autori sostengono che l’osteosintesi precoce con chiodo intramidollare può peggiorare il quadro polmonare facilitando il passaggio in circolo di emboli adiposi[20].

Deve  essere comunque sottolineato che la discussione in atto riguarda l’opportunità che i pazienti gravi vengano trattati “immediatamente” dopo l’ammissione (12-24 ore al massimo) o possano tollerare un ritardo fino a 72 ore per dar loro tempo di essere preparati all’intervento in modo più graduale. La pratica di mantenere le persone per giorni in trazione, così frequente nei nostri ospedali e purtroppo anche nelle terapie intensive, è invece ormai universalmente condannata dalla letteratura internazionale.

Benchè queste conclusioni sembrino supportare la strategia di stabilizzazione precoce anche in caso di trauma cranico grave, nei pazienti emodinamicamente instabili o con ipertensione endocranica il trattamento definitivo può essere dilazionato fino a 72 ore. Una strategia alternativa per questi pazienti può essere il ricorso in una prima fase alla stabilizzazione degli arti con l’utilizzo dei fissatori esterni. L’osteosintesi definitiva andrebbe rimandata ad un tempo successivo, dopo che si sia  ottenuta la stabilizzazione emodinamica, normalizzata l’emostasi e siano state trattate le lesioni emorragiche degli altri distretti. Il vantaggio di questo approccio è che l’impianto di fissatori esterni può essere in genere effettuato in tempi brevi, anche mantenendo il paziente immobilizzato sulla  tavola spinale. Secondo i dati di Scalea su 324 pazienti, il tempo medio di intervento per la fissazione esterna è mediamente 35’ mentre per l’osteosintesi di femore ne sono necessari in media 135’. Le perdite di sangue stimate per le due procedure sono rispettivamente di 90 e 400 ml [21] con un impatto emodinamico ovviamente diverso. L’impiego precoce dei fissatori esterni permettere di ridurre gli stimoli dolorosi e di agevolare le manovre di nursing.

Questa strategia è stata adottata anche dal nostro gruppo. Secondo le linee guida condivise con gli ortopedici i pazienti emodinamicamente stabili e con basso rischio di sviluppare un ematoma intracranico vengono trattati entro le prime 36 ore con osteosintesi definitiva, mentre quelli che richiedono la stabilizzazione delle funzioni vitali o hanno una pressione intracranica elevata, vengono sottoposti a fissazione esterna come “bridge” verso l’intervento definitivo. Questa strategia consente di evitare del tutto l’impiego della trazione transcheletrica migliorando le condizioni di gestibilità del paziente.

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