Paziente critico con peritonite

Dr. Luigi Panella

Dirigente medico – U.O.C. Anestesia e Rianimazione – P.O. L’Aquila

La peritonite è causa piuttosto frequente di ricovero in Rianimazione e la mortalità correlata è attorno al 30%1, superando il 50% quando è secondaria a complicanze di precedenti procedure chirurgiche e nelle peritoniti terziarie2,3. Nonostante i progressi delle tecniche chirurgiche e l’affinamento delle tecniche diagnostiche e di supporto vitale, non si sono manifestati negli anni sostanziali miglioramenti dell’outcome di questi pazienti4. Le ragioni sono legate, da un lato alle gravi comorbidità presenti e, dall’altro, ad un ritardo nella diagnosi definitiva e/o nell’adozione di trattamenti adeguati. Dall’analisi della letteratura più recente emerge come vi sia difficoltà a comparare popolazioni di pazienti tanto eterogenee e come siano deboli le evidenze (livello 3-5 EBM) negli studi clinici, specie per quanto concerne l’adeguatezza del trattamento4. Inoltre, sussistendo ancora dibattito sulla definizione di peritoniti secondarie e terziarie, ne risulta variabilità dei criteri d’inclusione negli studi clinici, fattore che complica ulteriormente l’analisi e l’interpretazione dei dati3.

Le peritoniti primarie (I), o peritoniti batteriche spontanee (SBP), sono quelle che si manifestano in assenza di lesioni dei visceri cavi e della cavità peritoneale. Il paziente critico ricoverato in Rianimazione per, o con, peritonite primitiva è tipicamente il paziente cirrotico che presenta uno scompenso acuto della patologia epatica. La patogenesi di questa forma di peritonite primaria è stata a lungo dibattuta, ma le teorie della diffusione ematogena o linfatica sono sopravanzate in modo convincente dalla teoria della traslocazione batterica, attraverso la parete intestinale intatta, favorita da un’anomala crescita della flora microbica nell’intestino tenue prossimale5. Contrariamente alle peritoniti secondarie, tipicamente polimicrobiche, in quelle primarie l’infezione è caratteristicamente monomicrobica. Dai dati esistenti in letteratura è difficile trarre conclusioni definitive circa la prevalenza microbica: sembra prevalgano i cocchi Gram positivi nei pazienti ospedalizzati o soggetti a frequenti ricoveri6, con predominanza di MRSA in Rianimazione7, mentre enterococchi e Gram negativi prevalgono nelle peritoniti primarie domiciliari8, sebbene quest’ultimo dato sia smentito da un recente lavoro9 che documenta una prevalenza di Gram positivi in un’analisi retrospettiva di 427 cirrotici domiciliari sottoposti a paracentesi.

La diagnosi clinica è complessa perché il quadro clinico generale può oscillare fra la pauci o asintomaticità del paziente domiciliare e la compromissione delle funzioni vitali tanto grave (cirrotico comatoso) da limitare sensibilmente il valore dell’esame obiettivo addominale. È del tutto evidente che la coesistenza di ascite, difesa addominale e SIRS in assenza di evidenti foci infettivi in altri distretti, è suggestiva per SBP, ma i primi due segni possono essere assenti, o non evidenti, nel cirrotico critico  ricoverato in Rianimazione. In entrambi i casi (sospetto clinico o sepsi occulta in cirrotico scompensato) un’eco-addome è necessaria, sia per rafforzare o escludere il sospetto che per agevolare il prelievo di liquido peritoneale. Sfortunatamente, in oltre 1/3 dei pazienti con SBP l’esame colturale del liquido ascitico è negativo9 ed i valori diagnostici dell’esame chimico fisico sono controversi9,10, non tanto per quanto concerne l’incremento del lattato e la riduzione del glucosio, quanto per il valore soglia dei neutrofili nel liquido ascitico (rispettivamente 250 o 500/mm3). Un ausilio diagnostico può derivare dal dosaggio ematico della procalcitonina (PCT), dimostratosi un indice sensibile e specifico per SBP11, la cui utilità nel paziente critico in Rianimazione è tuttavia da verificare.

Riguardo al trattamento antibiotico è evidente che, sebbene non siano state evidenziate differenze di outcome nei pazienti domiciliari trattati o non trattati9, appare alquanto rischioso non trattare con antibiotici una sospetta SBP nel paziente critico. Per la scelta antibiotica non vi sono evidenze convincenti della superiorità di un regime antibiotico rispetto ad altri8,12: un trattamento ad ampio spettro (β lattamina/inibitore β lattamasi  o cefalosporina III), da associare a teicoplanina se la SBP insorge in paziente ospedalizzato, appare adeguato. Va considerato che nel cirrotico possono comunque verificarsi peritoniti secondarie: isolamenti polimicrobici e presenza di anaerobi suggeriscono questa diagnosi; in tal caso sarà opportuno associare metronidazolo. In assenza di colture positive che ne documentino la necessità, è opportuno evitare antibiotici potenzialmente nefrotossici nei cirrotici critici. Se la diagnosi è corretta, il rapido (48 h) decremento dei neutrofili nel liquido ascitico conferma l’adeguatezza del trattamento empirico, che andrà protratto per almeno 5 giorni. Nonostante il trattamento antibiotico della SBP sia efficace in oltre il 50% dei cirrotici, la mortalità sfiora il 90% in alcune casistiche, in ragione delle gravi comorbidità; insufficienza renale, ipotermia, iperbilirubinemia ed ipoalbuminemia sono associate con le prognosi peggiori12.

Nei cirrotici con sanguinamento gastrointestinale in atto è consigliabile il trattamento preventivo della SBP con ciprofloxacina o cotimoxazolo orali per 7 giorni8,12.

Per quanto concerne le peritoniti dei pazienti in dialisi peritoneale (CAPD), esse vengono generalmente classificate come peritoniti primarie perché effettivamente manca la lesione del viscere cavo. In realtà se ci si rifà alla definizione (assenza di lesione anche della cavità peritoneale) sembrerebbe più corretto classificarle fra le secondarie, identificando nella comunicazione, sia pure potenziale, fra cavo peritoneale ed ambiente la non integrità della cavità stessa. Al di là delle questioni nosografiche, emerge comunque la rarità del suo riscontro nei pazienti ricoverati in Rianimazione (due casi negli ultimi 4 anni nella Rianimazione di L’Aquila). La patogenesi è multifattoriale (infezione del sito d’ingresso del catetere peritoneale, manipolazioni senza rispetto di asepsi, contaminazione del liquido di dialisi, caduta delle difese locali e generali) e la diagnosi si fonda sull’esame colturale del liquido peritoneale (e su quello di dialisi) e sul riscontro di oltre 50-100 neutrofili/mm3 all’esame citologico. La diagnosi differenziale (diretta addome) va posta con la perforazione accidentale di un viscere cavo, più spesso il cieco. Se l’infezione è moderata, può essere sufficiente aggiungere l’antibiotico (vancomicina + ceftazidime) al liquido dialitico, in caso contrario gli stessi antibiotici vanno somministrati per via parenterale e la terapia intraperitoneale va protratta per almeno due settimane. Se il catetere è contaminato, la produzione di slime (Stafilococchi e Candida) può rendere inefficace anche il trattamento teoricamente adeguato in vitro; è pertanto fondamentale monitorare i neutrofili del liquido di scambio e sostituire il catetere se essi non diminuiscono nonostante la corretta terapia antibiotica. Il catetere peritoneale va rimosso anche in presenza di infezione evidente del sito d’ingresso o di peritoniti ricorrenti, specie se si isolano Pseudomonas aeruginosa o funghi.

Le peritoniti secondarie (II) si verificano per fuoriuscita di microrganismi dal lume intestinale la cui parete abbia perso integrità per perforazione, trauma, ischemia, necrosi, deiscenza. Quelle post operatorie insorgono in pazienti generalmente ricoverati nei reparti chirurgici che finiscono in Rianimazione, spesso con una grave insufficienza multiorgano (MOFS), quando si ritarda il reintervento, confidando in miracolosi poteri della terapia antibiotica rispetto a possibili complicanze (spandimenti perianastomotici, incompleto controllo della fonte di contaminazione). Quelle di natura post traumatica o ischemica sono invece più caratteristiche dei pazienti ricoverati in Rianimazione.

L’eziologia batterica riflette la flora microbica residente dello specifico tratto intestinale da cui fuoriesce. Benché le peritoniti secondarie siano tipicamente polimicrobiche, la prevalenza dei patogeni è ampiamente influenzata dal contesto clinico: sede originaria della lesione intestinale, durata dell’ospedalizzazione, pressione antibiotica e conseguente sovvertimento della fisiologica flora microbica endogena. Gli anaerobi sono comunque inusuali per lesioni della parete di stomaco e duodeno.

Il tipico quadro clinico di dolore, diffuso o localizzato, dolorabilità e segni d’irritazione peritoneale, è piuttosto raro in Rianimazione: l’età avanzata, la compromissione della coscienza, spontanea o indotta dai sedativi impegnati, il frequente concomitante impiego di antibiotici e, soprattutto, di corticosteroidi per limitare la flogosi peritoneale, possono completamente mascherare i dati obiettivi addominali. Gli unici dati clinici restano la compromissione della peristalsi e la progressione dello stato settico. Stabilito il corretto iter diagnostico (vedi oltre) ed intrapresa o modificata l’indispensabile copertura antibiotica ad ampio spettro (carbapenemico, piperacillina/tazobactam, ciprofloxacina più metronidazolo, cefalosporina III o IV più metronidazolo)13, includente gli antifungini per le lesioni del tratto gastroenterico superiore, è fondamentale intervenire il più rapidamente possibile. La scelta della terapia antibiotica deve tener conto della tossicità specifica, dei costi e dei patterns locali di resistenza e richiede massima integrazione e collaborazione con il laboratorio di microbiologia. Di cruciale importanza, proprio al fine di prevenire la selezione di sottopopolazioni resistenti, è la durata ottimale del trattamento: non oltre 5-7 giorni se il controllo chirurgico della sorgente infettiva è stato efficace. Benché i tassi di mortalità risultino superiori quando si isolano enterococchi14, non è stato dimostrato che specifici trattamenti anti-enterococco migliorino l’outcome15 e, stante la bassa incidenza in Italia di specie glicopeptidi-resistenti, ancor meno giustificato appare l’impiego di linezolid o quinopristin/dalfopristin.

Si definisce peritonite terziaria (III) la peritonite che persiste o ricorre ad oltre 48 ore dal trattamento apparentemente adeguato di una peritonite I o II.

Nathens16, nel rivedere retrospettivamente 59 peritoniti II ricoverate in ICU chirurgica al fine di identificare i fattori di rischio connessi con l’evoluzione in peritonite III, ne ha evidenziato l’evoluzione nel 74% dei pazienti, con mortalità doppia (64 vs 33%) rispetto ai 14 casi non evoluti in terziaria; non avendo riscontrato differenze statistiche nell’APACHE II score di ammissione, né nelle premorbidità e nell’origine della peritonite II, ha sollevato la questione se la peritonite III sia causa o riflesso dell’outcome sfavorevole. Evans17, rivedendo retrospettivamente 473 episodi di peritonite II e 129 episodi di peritonite III è giunto alla conclusione che l’elevata mortalità associata alla peritonite III è più funzione della popolazione in cui si sviluppa che della gravità del processo patologico in sé, identificando nell’età avanzata ed in 4 comorbidità (malattie cerebrovascolari, neoplasie, insufficienza renale in trattamento dialitico ed epatopatie) i predittori indipendenti di mortalità delle peritoniti III e, contrariamente a Nathens, identifica nell’APACHE II score più elevato l’unico fattore di rischio indipendente di evoluzione da II a III. In un articolo di revisione Malangoni18 indica altri 3 fattori di rischio per l’evoluzione in peritonite III: malnutrizione, isolamento di patogeni multiresistenti ed insufficienza multiorgano.

Comunque, ciò che emerge con evidenza da tutti gli studi clinici è che le peritoniti III differiscono dalle II per la differente flora microbica e per la scarsa responsività a trattamenti antibiotici empirici apparentemente appropriati19. Trattandosi sostanzialmente degli stessi patogeni che colonizzano il tratto gastroenterico superiore dei pazienti critici, responsabili di altre infezioni acquisite in Rianimazione, appare possibile ricondurre alla traslocazione batterica, favorita dalla pressione antibiotica, la patogenesi delle peritoniti III.

Essendo le peritoniti III gravate da elevata mortalità risulta fondamentale, da un lato, utilizzare elementi clinici che consentano di sospettare la persistenza di sepsi addominale e, dall’altro, impiegare tecniche diagnostiche adeguate ad escludere che la persistenza sia legata a fonti di contaminazione misconosciute. Come confermato dallo studio di Paugam-Burtz20, il quotidiano monitoraggio del SOFA score orienta rapidamente il sospetto: il suo mancato decremento al secondo giorno postoperatorio suggerisce la persistenza dell’infezione peritoneale e supporta la decisione della rivalutazione diagnostica (TAC, lavaggio peritoneale, minilaparoscopia) o della riesplorazione chirurgica.

Per quanto concerne il trattamento con antibiotici, vi sono scarse evidenze che il loro uso nelle peritoniti III ne migliori l’outcome, sebbene ciò possa dipendere dall’impiego di trattamenti standard inadatti per i patogeni multiresistenti comunemente riscontrati19. Quando possibile, sarebbe meglio mirare il trattamento su patogeni precedentemente isolati da campioni di liquido peritoneale prelevati all’apertura della cavità peritoneale. Se, come purtroppo accade, il liquido peritoneale non è stato invece campionato, andranno evitati antibiotici anti-anaerobi21, specie se la lesione iniziale era del tratto gastroenterico superiore, ed andranno associati un glicopeptide, per i Gram positivi meticillino resistenti, doppia copertura per i Gram negativi (aminoglicoside più carbapenemico, penicillina antipseudomonas o chinolonico, preferendo fra gli ultimi tre  l’antibiotico non impiegato in precedenza) e fluconazolo.


DIAGNOSI

Il sospetto clinico di peritonite in Rianimazione, stante la frequente povertà dei dati obiettivi addominali (ipoperistaltismo, distensione addominale, dolorabilità non affidabile), si fonda sulla precoce individuazione di nuove insufficienze d’organo,  spesso associate ad acidosi non altrimenti spiegabile ed a stato settico (febbre e leucocitosi neutrofila pressochè costanti), in un paziente che presenti uno o più dei seguenti fattori di rischio: chirurgia addominale recente, pancreatite acuta o subacuta, colecistopatia, storia di ulcera peptica, trauma addominale chiuso, ridotto flusso splancnico (shock protratto, vasopressori), possibile embolismo arterioso (fibrillazione striale, infarto miocardio recente), storia di trombosi ed arteriopatia obliterante arti inferiori. Il semplice sospetto clinico di peritonite in paziente critico impone il monitoraggio della pressione intraaddominale (IAP), della diuresi oraria e, dal punto di vista emodinamico, almeno della PVC. Le emocolture risultano spesso negative (assenza di batteriemia in paziente chirurgico febbrile è pressochè sinonimo d’infezione intra-addominale), sebbene non possano escludersi batteriemie polimicrobiche o con anaerobi, fortemente suggestive per infezione peritoneale. A fini microbiologici può risultare utile il campionamento di materiale infetto adiacente all’incisione chirurgica mediante cauta introduzione di tamponi sterili attraverso la breccia chirurgica21. Il monitoraggio immunologico, ove eseguibile, non differisce da quello raccomandabile per ogni tipo di sepsi: PCR, PCT, IL-6, IL-10, elastasi, sottopopolazioni linfocitarie, eventuali skin tests. L’assenza di markers specifici della sepsi, ed a maggior ragione di quella addominale, giustifica il concomitante monitoraggio di quei markers biologici (Proteina C anticoagulante, AT III) che meglio di altri riflettono la stimolazione dell’asse infiammazione/coagulazione e che valutati globalmente e dinamicamente possono aiutare ad individuare pazienti che più di altri meritano di essere trattati con terapie “adiuvanti”.

L’approfondimento diagnostico strumentale, in considerazione delle difficoltà tecniche ad ottenere radiogrammi validi in Rianimazione, e dei pochi e grossolani elementi rilevabili (aria libera intraperitoneale, livelli idroaerei), si incentra sulla TAC addome. L’ecografia addominale, pur utile ad individuare ascessi intra-addominali e raccolte libere ed a valutare l’albero biliare, è ostacolata da drenaggi addominali multipli, dall’ileo paralitico ed è fortemente operatore-dipendente. È comunque un esame di primo livello da eseguire sempre nel paziente con sospetta peritonite, anche per l’ausilio offerto al prelievo di liquido peritoneale.

La TAC addome con mdc visualizza rapidamente le raccolte peritoneali o retroperitoneali, ma la presenza d’infezione addominale è suggerita anche da aria libera intracavitaria e dalla caratteristica impregnazione della parete ascessuale22. Un mdc orale o rettale può documentare passaggio extraluminale del contrasto mentre l’ischemia intestinale è suggerita dalla presenza di gas nella parete intestinale (pneumatosi) o nei vasi mesenterici o dall’assenza di perfusione dei tessuti; è invece  del tutto occasionale il riscontro di un trombo-embolo ostruente.

Condizioni del paziente particolarmente critiche, distanza eccessiva della TAC,  scarse possibilità di monitoraggio invasivo durante il trasporto e l’esecuzione dell’esame, possono rendere la TAC un esame a rischio. In alternativa si può ricorrere ad indagini più invasive, eseguibili però in Rianimazione: un lavaggio peritoneale diagnostico può documentare neutrofili, batteri, bile, contenuto intestinale, mentre il ritorno di lavaggio ematico orienta verso l’ischemia intestinale acuta; una minilaparoscopia, pur con le difficoltà tecniche connesse a probabili aderenze ed alla necessità di pneumoperitoneo, rischioso per il ritorno venoso, può risultare utile ad evitare pericolose riesplorazioni chirurgiche nelle peritoniti terziarie23 o, viceversa, favorire il reintervento nelle peritoniti postoperatorie con fonte di contaminazione persistente.

TRATTAMENTO

Il trattamento specifico della peritonite II è quello chirurgico. Il trattamento rianimatorio è teso a supportare le insufficienze d’organo: supporto respiratorio, privilegiando la ventilazione non invasiva, generoso rimpiazzo volemico, sostegno del circolo con noradrenalina +/- dobutamina (evitando dopamina che peggiora la perfusione splancnica) +/- idrocortisone a basse dosi, sostegno della funzione renale con furosemide +/- fenoldopam, CVVH precoce, etc.

L’antibioticoterapia sistemica, purché adeguata, è sostanzialmente adiuvante rispetto all’intervento24. Benché l’isolamento di Candida nelle infezioni intraaddominali aumenti il rischio di mortalità25, non vi sono evidenze convincenti che il trattamento antifungino modifichi tale rischio26, sebbene si possa concordare con l’opportunità del trattamento antifungino empirico quando coesistano almeno tre dei fattori di rischio per peritonite da Candida identificati da Dupont27 (shock intraoperatorio, terapia antibiotica in corso, sesso femminile, origine della peritonite dal tratto gastroenterico superiore).

Per quanto riguarda i farmaci adiuvanti ed immunomodulanti, non esistono in letteratura dati esaustivi circa l’utilità delle immunoglobuline parenterali (pentaglobine)28 sebbene vi si ricorra spesso, specie  nei pazienti immunocompromessi o in terapia corticosteroidea protratta. Il trial PROWESS29 ha invece dimostrato che la proteina C attivata (APC) influenza positivamente l’outcome di sepsi grave e shock settico, ed il suo impiego appare ragionevole nelle peritoniti postoperatorie in cui sia stata esclusa con certezza la persistenza di fonte attiva di contaminazione, sia stato istituito un trattamento antibiotico empirico adeguato e siano contrastate efficacemente le insufficienze d’organo. Ricorrendo tali condizioni l’APC avrebbe più un ruolo di terapia specifica che adiuvante. Riguardo al timing d’impiego dell’APC, le decisioni andranno assunte in accordo con il chirurgo, soppesando nel singolo paziente il rischio emorragico rispetto ai potenziali vantaggi. Sebbene il trial Kybersept30 non abbia documentato per l’antitrombina III (AT III), identico impatto sulla mortalità, va rilevato come lo studio includesse molti pazienti con sepsi addominale (30%) e che se si analizza l’impatto sull’outcome del sottogruppo SAPS II con rischio di mortalità medio-elevato (30-60%), l’AT III senza eparina concomitante ha ridotto significativamente la mortalità; pertanto il suo impiego appare razionale nelle sepsi addominali, soprattutto nei pazienti con bassi livelli di AT o in shock settico31,32. La prostaciclina33 e l’acetilcisteina34 sono risultate utili nelle ipoperfusioni splancniche del paziente critico ma non esistono studi prospettici su ampia scala che ne suggeriscano l’impiego nelle sepsi addominali e un ruolo tutto da definire ha l’immunonutrizione35.

Il trattamento chirurgico deve mirare all’eradicazione del focolaio infettivo, alla prevenzione dell’ulteriore contaminazione ed al ripristino di un quadro anatomico e funzionale normale e, dal punto di vista pratico, si basa su tre principi: drenaggio, rimozione del tessuto non vitale, infetto o estraneo (debridement), e trattamento risolutivo dell’alterazione anatomica responsabile della persistente contaminazione microbica4,36.

Nel paziente critico il drenaggio percutaneo, TAC o eco guidato, andrebbe preferito nelle raccolte fluide localizzate o in comunicazione con il lume gastrointestinale; altre volte (ascesso peri pancreatico) il drenaggio percutaneo può essere scelto come misura temporanea decompressiva in attesa del miglioramento del quadro clinico per l’intervento definitivo37. Il drenaggio chirurgico a cielo aperto andrebbe riservato alle peritoniti generalizzate, alle raccolte contenenti tessuto solido da asportare, agli insuccessi del drenaggio percutaneo e quando occorre riparare una fonte di contaminazione attiva (deiscenza). L’irrigazione del cavo peritoneale per rimuovere batteri, tessuto devitalizzato e fibrina può considerarsi una forma di debridement, ma non vi sono sufficienti evidenze della sua utilità38. La rilaparotomia  programmata (o l’approccio addominale aperto) nella peritonite II non solo non migliora l’outcome del paziente39 ma amplifica la risposta infiammatoria e peggiora la disfunzione d’organo40.

Nelle peritoniti III il ruolo del rianimatore è invece predominante, sia nel mantenere le funzioni d’organo di un paziente generalmente più critico, sia nel farsi carico di scelte decisionali impegnative: somministrare o no antibiotici? Quali somministrare? Somministrarli nel peritoneo o per via sistemica? Quale antifungino impiegare? Quali approfondimenti diagnostici utilizzare per escludere che il precedente intervento non abbia trascurato fonti misconosciute di persistente contaminazione? Come, viceversa, frenare il chirurgo da inutili riesplorazioni chirurgiche? Quali trattamenti adiuvanti  adottare? Quando iniziarli?

La centralità del suo ruolo, oltre che dalla specifica competenza per la “rianimazione del tratto gastrointestinale”, deriva da due ordini di considerazioni: 1) responsabilità assistenziale diretta, legata al fatto che il paziente è ricoverato nel suo reparto; 2) possibile coinvolgimento  psicologico del chirurgo in un intervento (o più interventi) “andato male”, con il rischio di un’aggressività chirurgica non giustificata dall’evidenza della diagnosi o, viceversa, di un rifiuto di trattamento giustificato.

CONCLUSIONI

In virtù dell’eccellente qualità della vita di cui godono i sopravvissuti, il trattamento intensivo dei pazienti critici con peritonite giustifica il più ampio dispiego di risorse tecnologiche ed economiche e richiede le più aggiornate conoscenze nel campo della rianimazione cardiocircolatoria, metabolica e respiratoria. Nei pazienti con sepsi addominale è delittuoso attendere l’insorgere anche di una sola nuova insufficienza d’organo prima d’intraprendere tempestivamente tutti quei trattamenti che, sebbene non specifici, appaiono in grado di influenzare positivamente l’outcome. Tuttavia, quando il danno tissutale appare francamente irreversibile, e l’outcome quasi certamente sfavorevole,  è necessario che il Rianimatore si astenga da costose quanto inutili terapie antimicrobiche empiriche e da costosi trattamenti adiuvanti che, oltre a sconfinare nell’accanimento terapeutico, rischiano solo di aumentare gli effetti avversi.

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 Dr Luigi Panella
Dirigente I livello, Responsabile Centro di Rianimazione
Ospedale S. Salvatore – ASL 04 L’Aquila