Doglietto Giovanni Battista, Tortorelli Antonio Pio, Pacelli Fabio, Papa Valerio
Divisione di Chirurgia Digestiva, Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Università Cattolica del Sacro Cuore- Roma
La sindrome compartimentale addominale (SCA) è una condizione clinica grave descritta in un’ampia gamma di scenari clinici e di riscontro sempre più frequente nelle unità di terapia intensiva. E’ determinata da un persistente aumento della pressione intraddominale (IAP) con una progressiva compromissione di organi sia intra che extraperitoenali che, in assenza di adeguato trattamento, porta inevitabilmente al decesso.
Fra le cause di ipertensione endoaddominale le più frequenti sono i traumi addominali, trapianti di fegato, sanguinamenti intra/extra peritoneali, pancreatiti, sepsi intra-addominali, ischemie-urgenze vascolari, packing addominale, chiusura della parete sotto tensione; oltre queste condizioni di SCA “primaria”, esiste una SCA “secondaria” che si sviluppa in pazienti che non presentano traumi intra-addominali (ustioni, traumi toracici, sepsi, shock emorragico) ma nei quali una massiva infusione di fluidi porta ad ascite ed edema intestinale. Un aumento quindi del volume peritoneale, viscerale e retroperitoneale (da soli o in combinazione) in un cavità delimitata da strutture ossee e tendinee (relativamente rigida) porta ad un inevitabile aumento della IAP che, al disopra di certi valori determina importanti alterazioni fisiopatologiche multiorgano. I sistemi che maggiormente subiscono gli effetti negativi di tale condizione sono l’apparato cardiovascolare, l’apparato urinario e respiratorio. La compressione della vena cava comporta un ridotto ritorno venoso al cuore che, associato ad una diminuita compliance delle camere cardiache (per aumento della pressione intratoracica) e ad un aumento delle resistenze vascolari splancniche (da compressione diretta) determina una riduzione dell’output cardiaco. Il quadro di graduale insufficienza renale della SCA è multifattoriale per l’associarsi di una riduzione della gettata cardiaca e di una compressione delle vene renali; il ruolo di una compressione ureterale sembra nullo poiché l’introduzione di stent ureterali non migliora la diuresi. L’innalzamento del diaframma sotto la spinta addominale porta ad una insufficienza respiratoria caratterizzata da un aumento della pressione inspiratoria, ipossia ed acidosi. A livello intestinale, una compressione dei vasi splancnici determina un’ischemia (con fenomeni di traslocazione batterica) già a valori di IAP di 10 mmHg. L’aumento della pressione intracranica e la ridotta perfusione cerebrale sono le conseguenze di una ipertensione endoaddominale a carico del SNC.
La registrazione della IAP può essere diretta, con un catetere intraperitoneale, ma sono preferibili delle metodiche “indirette” quali la misura della pressione nella vena cava inferiore (sonda trombogena e poco pratica), nello stomaco (poco affidabile per elevati valori di IAP) e nella vescica. Quest’ultima rappresenta, al momento attuale, la tecnica più affidabile, poiché, a volumi di riempimento inferiori a 100 cc, la vescica si comporta come un reservoir passivo che trasmette la IAP senza pressioni addizionali derivanti dalla contrazione muscolare.
I pazienti a rischio per una SCA sono quelli sottoposti a chirurgia addominale e tutti quelli in cui è stata necessaria una notevole infusione di liquidi per una condizione di shock da varie cause. I soggetti a rischio più alto sono coloro che hanno subito una “damage control surgery” o “abbreviated surgery” per traumi addominali ed ogni paziente chirurgico con una potenziale coagulopatia (cirrosi, porpora trombocitopenica idiopatica o profonda ipotermia). In tali casi risulta chiaro come sia necessario un attento e costante monitoraggio della pressione endovescicale per individuare precocemente un quadro di ipertensione endoaddominale ed i segni clinici e strumentali ad essa conseguenti.
La diagnosi di SCA è determinata da un quadro di ipertensione endoaddominale (IAP > 20 mmHg -27 cm H2O), oligoanuria (diuresi <0.5 ml/Kg/ora) ed insufficienza respiratoria (pressione di picco inspiratoria-PAP- > 40 mmHg), con subitaneo miglioramento di tali condizioni dopo decompressione chirurgica dell’addome. Tuttavia, dato che l’ischemia splancnica si verifica già a valori di IAP pari a 10-15 mmHg (in assenza, quindi, di altre manifestazioni cliniche della SCA), un approccio alternativo, recentemente proposto, consisterebbe nella misurazione, tramite un tonometro gastrico del pHi (indice di acidosi intramucosa).
Le indicazioni per il trattamento di una SCA non si basano sui risultati di studi controllati ma sulle raccomandazioni di centri ad alta esperienza. Il livello critico di IAP per la decompressione non è stato quindi stabilito con precisione. E’ stato creato un sistema di stadiazione della SCA (grado I-IV), sulla base della pressione endovescicale, con le raccomandazioni relative alla scelta terapeutica (Tabella 1). Generalmente se la IAP non supera i 20-25 mmHg (Grado I-II) il trattamento è essenzialmente medico, attraverso il mantenimento di una perfusione vascolare adeguata, la ventilazione assistita a pressione positiva, la somministrazione di dopamina, mannitolo e diuretici per il miglioramento della funzione renale, insieme ad un attento e costante monitoraggio della pressione endoaddominale. Una IAP pari a 10-15 mmHg (Grado I), infatti, può rientrare nell’ambito di normali valori post-operatori; inoltre, nella SCA di grado II, un trattamento chirurgico in assenza di oliguria, ipossia o pressioni di picco elevate risulta difficilmente giustificabile. In caso di IAP tra 26 e 35 mmHg (Grado III), nonostante i segni ed i sintomi della SCA possano svilupparsi in maniera insidiosa, si rende necessaria una decompressione chirurgica con riapertura del piano fasciale che può essere eseguita anche al letto del paziente nell’unità di Terapia Intensiva. Nella SCA di grado IV (IAP >35 mmHg), è obbligatorio procedere con urgenza alla celiotomia decompressiva con regolare esplorazione della cavità addominale in sala operatoria alla ricerca di una emorragia attiva.
L’aumento della IAP (grado II grado III grado IV) si accompagna ad una progressiva disfunzione d’organo, con quasi il 100% di compromissione renale, polmonare e cardiovascolare a valori superiori a 35 mmHg. Secondo alcuni, nel grado IV la decompressione è necessaria anche se i pazienti sono emodinamicamente stabili. Altri autori, invece, ritengono che la decisione sull’intervento dipenda non dai valori di pressione endovescicale quanto dagli effetti fisiologici determinati da un aumento della IAP; non sarebbe proponibile, quindi, una celiotomia decompressiva in assenza di segni di disfunzione renale, polmonare o cardiovascolare. Infine, recenti casistiche hanno dimostrato come un approccio più aggressivo (decompressione) in presenza di valori pressori di 18-20 mmHg o di segni precoci di SCA quali un’acidosi intestinale intra-mucosa potrebbe migliorare la prognosi di questi pazienti.
Il timing dell’intervento dipende dall’equilibrio tra le condizioni metaboliche del paziente e lo sviluppo delle complicanze della SCA; un trattamento “aggressivo” per correggere la coagulopatia, l’ipotermia, l’acidosi e l’ipovolemia dovrebbe essere tentato prima della riesplorazione chirurgica.
La celiotomia decompressiva consiste fondamentalmente nella apertura (o riapertura) del piano fasciale o nell’allargamento del materiale protesico di chiusura provvisoria già in sede. A questo punto deve essere presa una decisione riguardo alla metodica di chiusura. Se il packing o l’emoperitoneo rappresentavano l’unico fattore determinante un aumento della IAP, una volta rimosso il packing o controllata l’emorragia, l’addome può essere di solito chiuso con metodica tradizionale. Tuttavia, se a causa di una sottostante coagulopatia il sanguinamento potrebbe riprendere ed è necessario un repacking o in caso di edema viscerale massivo, è indicata una forma di ricostruzione della parete che ne attenui la tensione, per evitare l’ischemia e la necrosi della fascia, con conseguente suppurazione e deiscenza.
Per una chiusura temporanea dell’addome sono state messe a punto varie tecniche (open abdomen technique), simili nei principi chirurgici e nella possibilità di riesplorazioni sequenziali dell’addome e di correzione immediata di un quadro di ipertensione endoaddominale. Queste si differenziano nella scelta dei materiali utilizzati e nel timing della chiusura definitiva della parete addominale (chiusura primaria o differita con creazione di una “planned ventral hernia”). Non bisogna ritenere, però, che grazie a questi tipi di trattamento lasciando l’addome aperto il pericolo di una SCA recidiva sia scongiurato. Tali pazienti devono essere considerati ancora ad alto rischio e quindi monitorizzati strettamente per la precoce individuazione di un aumento di IAP.
Una delle prime tecniche utilizzate (molto diffusa per il basso costo e la disponibilità del materiale) per la chiusura temporanea è la cosiddetta “Bogota bag”: la parete è lasciata aperta e le anse vengono ricoperte da un foglio di plastica trasparente (sacca sterile da irrigazione urologica) modellato e cucito alle strutture aponeurotiche.
Nelle situazioni in cui sia necessario un adattamento della parete anche a minimi aumenti di volume intraddominale per l’alto rischio di recidiva di SCA, è possibile chiudere solamente la cute ed il sottocute con un monofilamento non riassorbibile o con pinze da teli, ma tale opzione sembra essere quasi abbandonata.
In assenza di infezioni intraperitoneali che richiedano riesplorazioni ripetute della cavità, è raccomandabile l’utilizzo di reti (assorbibili e non) fissate alla fascia in grado di essere a contatto con le anse. In tal senso, uno dei materiali più utilizzato è sicuramente il Gore-tex Dual Mesh (Politetrafluoroetilene – ePTFE), per il minor rischio di infezioni e fistole e la facilità di rimozione in caso di complicanze gravi. Le reti in Polipropilene (Marlex) vengono usate sempre meno (quando non sia possibile interporre l’omento o il peritoneo) per la maggior percentuale di decubito sulle anse con formazione di fistole. Le protesi riassorbibili (ad es. Vi-cryl) presentano meno rischi di fistolizzazione ma pongono il problema di una eventrazione sistematica.
Un’altra metodica è la cosiddetta “sandwich technique”, in cui una rete in Marlex viene suturata alla fascia e la ferita è ricoperta da un foglio di poliuretano con l’interposizione di tubi da drenaggio in aspirazione.
Nella “vacuum-pack technique” si pone una placca di polietilene fenestrato tra i visceri ed il peritoneo parietale; questa viene coperta da un telo sterile sopra al quale vengono posizionati due tubi in aspirazione continua. L’intera ferita viene poi ricoperta da un foglio di plastica adesivo. Recentemente è stata proposta una integrazione di queste metodiche: la “sandwich-vacuum pack technique”. Tra i visceri ed il peritoneo viene interposta una sacca di plastica (al posto del Marlex) che sovrabbonda di almeno 5 cm la fascia bilateralmente, senza alcuna sutura; i margini della ferita vengono approssimati, a tutto spessore, senza tensione con punti staccati in nylon ed al di sopra della sacca di plastica vengono posti due tubi in aspirazione. La ferita è infine ricoperta con poliuretano attraverso il quale fuoriescono i tubi.
Un altro metodo proposto è rappresentato dalla “SAC” (Serial Abdominal Closure): dopo aver posto a contatto con i visceri una sacca da irrigazione sterile, viene eseguita una sutura a punti staccati da materassaio comprendente cute, sottocute e fascia (solo la fascia in caso di abbondante tessuto sottocutaneo); tali punti non vengono approssimati ma fermati con delle pinze Kelly. Nell’unità di terapia intensiva (in base ai valori di PAP) le suture vengono accostate progressivamente, man mano che l’edema viscerale si riduce; una volta che i margini fasciali sono accostati, il foglio di plastica viene rimosso e le suture vengono ulteriormente solidarizzate. Al posto delle convenzionali suture, per approssimare i margini della ferita possono essere utilizzati dei tubi in silicone (per le infusioni endovenose) che vengono progressivamente messi in tensione. Tra i tubi e la cute viene interposto un telo chirurgico sterile ed al di sopra un foglio di poliestere. In caso di abbondante perdita di liquido è possibile posizionare tra i teli chirurgici ed il poliestere dei drenaggi in aspirazione creando così un “vacuum pack”. Una volta che i margini della fascia possono essere facilmente confrontati, la sacca di plastica ed i tubi vengono rimossi e la ferita chirurgica viene chiusa quindi con delle suture convenzionali.
E’ bene tenere presente, infine, come gli studi degli ultimi 15 anni non hanno dimostrato un sensibile miglioramento nella prognosi dei pazienti con SCA pur con tempi di decompressione più precoci e la messa a punto di tecniche di chiusura temporanea “tension free”. Questo ci suggerisce come sia più utile concentrare maggiormente gli sforzi verso la prevenzione piuttosto che la diagnosi precoce di tale condizione.