Doglietto Giovanni Battista, Pacelli Fabio, Tortorelli Antonio Pio, Papa Valerio
Divisione di Chirurgia Digestiva, Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Università Cattolica del Sacro Cuore- Roma
Le infezioni retroperitoneali costituiscono da decenni, per specialisti di diverse discipline, un’ardua sfida sul piano clinico, caratterizzata da notevoli problemi di diagnosi e trattamento e da una mortalità che si aggira intorno al 20% (1). Lo scopo di tale lavoro è di presentare alcuni aspetti dell’inquadramento nosologico e della strategia terapeutica di tale patologia.
Anatomia schematica del retroperitoneo
La conoscenza dell’anatomia dello spazio retroperitoneale costituisce un supporto imprescindibile per il corretto approccio diagnostico e terapeutico delle infezioni che in esso si sviluppano (2-4).
Il retroperitoneo è uno spazio virtuale, situato tra il peritoneo e la fascia trasversalis, che delimita la porzione posteriore della cavità addominale. Si estende in senso cranio-caudale dal diaframma alla pelvi, mentre lateralmente è delimitato dai margini esterni del muscolo quadrato dei lombi. Tale spazio può essere diviso in 3 differenti aree: retroperitoneale propriamente detta, retrofasciale, pelvica.
Area retroperitoneale (propriamente detta)
La fascia renale ne delimita una porzione anteriore ed una posteriore. Tale fascia, che ricopre il rene ed i grandi vasi dell’ilo, è chiusa superiormente per la sua fusione col diaframma, ma inferiormente è aperta. Questa comunicazione esistente tra il tessuto lasso perirenale e quello pelvico favorisce la diffusione in senso cranio-caudale dei processi suppurativi. Entrambi gli spazi retroperitoneali comunicano sulla linea mediana, ma comunque la maggior parte delle infezioni resta monolaterale. L’area retroperitoneale contiene i seguenti organi
(Figura 1,2): reni, colon ascendente e discendente, duodeno, pancreas, ureteri, vasi spermatici o ovarici, aorta addominale, vena cava inferiore. Le patologie a carico di tali strutture sono le principali responsabili delle infezioni retroperitoneali.
Figura 1. Diagramma dello spazio retroperitoneale (porzione anteriore e posteriore) su una sezione trasversale a livello della II vertebra lombare (da Stevenson et al – 2)
Figura 2. Diagramma dello spazio retroperitoneale (porzione anteriore e posteriore) su una sezione sagittale destra (a) e sinistra (b) (da Stevenson et al – 2)
Area retrofasciale
La fascia trasversalis separa il retroperitoneo dalla parete muscolare posteriore costituita dai muscoli e dalle loro fasce. Di fondamentale importanza, in questo contesto, è il muscolo psoas, frequentemente coinvolto dai processi suppurativi retroperitoneali. Lo psoas origina dalle apofisi traverse e dai corpi vertebrali della XII vertebra toracica e delle vertebre lombari, passa al di sotto del legamento arcuato del diaframma fondendosi inferiormente con il muscolo iliaco e inserendosi sul piccolo trocantere femorale. Nel suo decorso retroperitoneale, l’ileopsoas contrae rapporti con la colonna vertebrale, i reni, il pancreas, la giunzione ileo-cecale, il colon discendente, l’aorta, i linfonodi iliaci. Di conseguenza, ogni condizione infettivo-infiammatoria di tali organi può coinvolgere l’ileopsoas che costituisce una potenziale via di diffusione del processo settico dal mediastino alla coscia.
Area pelvica
L’area retroperitoneale pelvica si estende dal sacro, posteriormente, al pube, anteriormente; nella sua porzione superiore è delimitata dal peritoneo pelvico ed in basso dal pavimento pelvico. Può essere suddivisa in 4 spazi: prevescicale (tra pube e vescica), retrovescicale (tra vescica e retto), presacrale (tra retto e sacro), perirettale bilaterale.
Inquadramento nosologico e diagnosi
Sotto il profilo clinico-anatomico, le infezioni retroperitoneali, che nella maggior parte dei casi si configurano come ascessi, possono essere classificate in 5 gruppi:
1) perirenali
2) retroperitoneali alte
3) pelviche
4) combinate (retroperitoneali alte e pelviche)
5) muscolo-scheletriche (muscoli iliaco, psoas, gluteo)
Dal punto di vista eziologico, possiamo distinguere tra forme primitive e forme secondarie
Infezioni retroperitoneali primitive
L’incidenza subisce una notevole influenza geografica (5,6). In Europa in circa il 20% del totale dei casi non è riscontrabile una causa evidente (7,8); si tratta generalmente di bambini e soggetti con predisposizione all’infezione (diabete, alcolismo, cirrosi, IRC, neoplasie, terapia corticosteroidea, AIDS). Nel 75-90% dei casi (5,6,9), i germi responsabili sono ceppi di Stafilococcus Aureus, anche se non di rado vengono isolati streptococchi (5), E. Coli (5,10), Proteus mirabilis (11), Brucellar spp (12).
Infezioni retroperitoneali secondarie
Sono dovute a contaminazione diretta da parte di strutture contigue, principalmente per patologie gastrointestinali (morbo di Crohn, diverticolite, pancreatite, cancro del colon) o renale. Altri possibili momenti eziologici sono costituiti dalle patologie post-traumatiche, infezioni post-operatorie, manovre iatrogene (ad es. perforazione duodenale durante CPRE), coagulopatia o terapia anticoagulante, osteomielite.
I germi più comunemente isolati sono Gram negativi ed anaerobi di origine gastrointestinale, quali E. Coli e Bacteroides Fragilis rispettivamente (1). L’infezione da Mycobacterium Tubercolosis rimane un problema importante. se, infatti, la malattia tubercolare è maggiormente diffusa in Asia ed Africa (5), con il 5% dei pazienti portatori di morbo di Pott che sviluppano un ascesso retroperitoneale (13) e nonostante molte serie occidentali riportino una incidenza di tubercolosi nulla (14-16), o trascurabile (17,18) non bisogna sottovalutare l’impatto eziologico delle comunità multietniche sulla società occidentale. In recenti serie occidentali, nel 25-33% degli ascessi retroperitoneali sono stati riscontrati micobatteri (7,8)
Sotto il profilo diagnostico, l‘avvento delle nuove tecniche di imaging ha rivoluzionato l’approccio alle infezioni retroperitoneali: la tomografia computerizzata, infatti, oltre ad avere una specificità del 77%, una sensibilità del 100% ed un’accuratezza diagnostica intorno all’88% (19), risulta particolarmente adatta allo studio della muscolatura retrofasciale (17,20) e del compartimento renale (21,22). Le informazioni sulla morfologia e sui rapporti con le strutture adiacenti risultano fondamentali per la pianificazione della strategia chirurgica da adottare; di estrema importanza è inoltre la possibilità di eseguire prelievi per esami colturali, con conseguente somministrazione di terapia antibiotica mirata.
In tale ambito, solo recentemente è stato sottolineato il ruolo della risonanza magnetica, particolarmente adatta a studiare il compartimento osseo del retroperitoneo e in grado anche di porre diagnosi differenziale con gli ematomi (19).
Nonostante lo sviluppo di questi ausili strumentali, anche in recenti casistiche (1), le infezioni retroperitoneali, specie le forme primitive, sono caratterizzate spesso da un notevole ritardo diagnostico (2 settimane in media). Rispetto alle cavità addominale, infatti, il retroperitoneo è “nascosto” e le patologie infiammatorie/suppurative a suo carico determinano inizialmente, nella maggior parte dei casi, sintomi e segni aspecifici spesso sottovalutati: febbre, dolenza, astenia, leucocitosi. Solo nelle fasi più avanzate lo sviluppo di masse inguinali, il segno dello psoas ed il rapido deterioramento delle condizioni generali costituiscono un importante campanello d’allarme. Nel 15-20% dei casi, l’esordio clinico è rappresentato da uno shock settico conclamato.
Trattamento
I cardini del trattamento delle infezioni retroperitoneali, sono il drenaggio percutaneo sotto guida radiologica e la terapia chirurgica, entrambi associati ad una adeguata terapia antibiotica.
Drenaggio percutaneo
Tale metodica risulta particolarmente adatta nell’approccio alle forme ascessuali, soprattutto quelle localizzate al compartimento perirenale e retrofasciale (23), costituendo in tali casi una valida ed efficace alternativa a procedure chirurgiche più invasive. A tal proposito, però, bisogna sottolineare come alle incoraggianti percentuali di successo riportate nella letteratura di stampo radiologico (fino al 100% – 23)) facciano riscontro delle oggettive limitazioni alle manovre percutanee, quali ascessi multiloculari e con importante quota necrotica. Un ulteriore vantaggio del drenaggio percutaneo è rappresentato dalla possibilità di determinare, mediante l’evacuazione della gran parte della componente purulenta, un miglioramento del quadro settico in pazienti instabili e ad alto rischio; in tali condizioni si potrà procedere successivamente a terapie chirurgiche più aggressive con maggiori probabilità di successo e minori rischi operatori.
Intervento chirurgico
Il concetto guida del trattamento chirurgico delle sepsi retroperitoneali è quello che “anche il pus obbedisce alla legge di gravità” (24). Per tale motivo, la via transperitoneale, inefficace (fino all’80% dei casi) ed altamente contaminante, dovrebbe essere sempre evitata quando possibile. Le vie d’accesso preferenziali sono quelle extraperitoneali, sul fianco destro o sinistro con eventuale sezione dei muscoli. Nell’esperienza personale sui processi settici retroperitoneali massivi da pancreatite necrotico-emorragica (25) o perforazioni duodenali post-CPRE (26), la lombotomia sec. Fey con asportazione della XI o XII costa (Figura 3) ha consentito un’ampia esposizione sia della porzione superiore del retroperitoneo, verso il diaframma, che di quella inferiore, verso la piccola pelvi.
Da un punto di vista tecnico, l’evacuazione del materiale necrotico-purulento deve essere la più completa possibile, con ampia necrosectomia e risparmio delle strutture vitali. E’ utile, al termine dell’intervento, posizionare nella cavità residua dei drenaggi in posizione declive e zaffare con garze; la ferita chirurgica viene quindi lasciata aperta allo scopo di perfezionare periodicamente la toilette chirurgica nell’unità di terapia intensiva o in reparto.
E’ evidente che l’accesso esclusivamente extraperitoneale risulta efficace, oltre che nelle forme primitive, anche in quelle perirenali, nelle colate da pancreatite necrotico-emorragica, nelle perforazioni duodenali durante manovre endoscopiche, nelle forme secondarie ad osteomielite, postraumatiche, da sovrainfezione di ematomi. Nelle forme secondarie a perforazioni – coliche od ileali (morbo di Crohn, diverticolite, neoplasie, appendicite acuta) – ed a deiscenze anastomotiche intestinali, si impone, invece, un tempo intraperitoneale per il trattamento della fonte primaria di infezione con eventuale intervento derivativo.
Anche gli ascessi pelvici beneficiano di un trattamento chirurgico per via extraperitoneale. Nelle forme presacrali l’approccio preferenziale è costituito da un’incisione tra ano e coccige (con asportazione o meno dello stesso – Figura 4), mentre nelle forme prevescicali è possibile un accesso sovrapubico o a livello inguinale. Le raccolte retrovescicali possono beneficiare della via transvaginale (utile anche come accesso radiologico) o, con minori percentuali di successo, della via transrettale.
Figura 3. a) Lombotomia destra sec. Fey; b) Sezione sagittale che mostra la via d’accesso posteriore (extraperitoneale) al retroperitoneo. (da Doglietto et al – 26).
Figura 4. Gli ascessi pelvici presacrali sono drenati preferibilmente tra ano e coccige (da Crepps et al- 1)
Conclusioni
Il successo terapeutico nei casi di sepsi retroperitoneali, oltre che nell’adeguata evacuazione (chirurgica e/o percutanea) delle raccolte infette, risiede anche in un’efficace antibioticoterapia, nel mantenimento di un adeguato stato nutrizionale attraverso metodiche di nutrizione artificiale (parenterale, entrale o combinate), in un attento monitoraggio clinico-laboratoristico-strumentale e nell’attuazione di una intensiva terapia di supporto nell’eventualità di complicazioni sistemiche associate (27).
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