Fisiopatologia…

FISIOPATOLOGIA DELLA SINDROME DA IPERTENSIONE ENDOCRANICA

Le varie situazioni patologiche fin qui discusse possono condurre, isolatamente o più spesso associate, alla sindrome di IE. Indipendentemente dal meccanismo con cui si instaura, la sua fisiopatologia riconosce essenzialmente due fasi distinte. Nella prima, o “fase di compenso”, le variazioni in meno di due fattori determinanti la PI compensano la variazione in più del terzo (legge di Monro-Kellie). La durata di questa fase dipende dalla velocità con cui evolve la lesione causale. Ad esempio, come è già stato detto, un tumore a lenta evoluzione può raggiungere dimensioni notevolissime senza provocare una sindrome da IE. Nella seconda, o “fase di scompenso”, l’IE si rende manifesta e si realizza quel circolo vizioso a cui già si è accennato. L’aumento della PI di per sé produce pochi sintomi e segni neurologici: cefalea e papilledema essenzialmente. Gli effetti patologici della IE sul SNC sono determinati dalla diminuzione della pressione di perfusione cerebrale e dagli spostamenti di massa cerebrale (ernie). Si definisce pressione di perfusione cerebrale la pressione arteriosa sistemica meno la pressione intracranica. Un aumento di pressione arteriosa sistemica o una diminuzione della PI provocano un aumento della pressione di perfusione cerebrale; all’inverso una caduta della pressione arteriosa sistemica o un aumento della PI provocano una diminuzione della pressione di perfusione cerebrale. In condizioni normali la pressione di perfusione deve scendere al di sotto dei 40 mmHg prima che il flusso ematico cerebrale diminuisca, poiché l’autoregolazione dei vasi cerebrali provoca una vasodilatazione compensatoria a livello arteriolare che consente di mantenere il flusso cerebrale costante. D’altra parte, quando la PI sale sino ad eguagliare la pressione arteriosa sistemica, il flusso ematico cerebrale cessa completamente. Pertanto notevole importanza rivestono i rapporti tra pressione intracranica e volume ematico intracerebrale, che sono tuttavia molto complessi e non ancora completamente chiariti. Quando l’autoregolazione dei vasi cerebrali è intatta, un aumento della PI provoca una diminuzione della pressione di perfusione e quindi vasodilatazione a livello arteriolare.

La diminuita resistenza al flusso ha il risultato di mantenere costante il flusso ematico intraparenchimale. Contemporaneamente, l’aumento della PI provoca compressione a livello delle lacune venose ai margini dei seni durali, con conseguente congestione a livello dei vasi venosi. Quindi l’aumento della PI provoca da un lato dilatazione arteriolare attraverso i meccanismi di autoregolazione, e dall’altro congestione venosa con conseguente aumento di volume del compartimento ematico cerebrale. Il risultato è che si instaura un circolo vizioso dove un aumento di PI determina un aumento di volume ematico cerebrale, che a sua volta determina un ulteriore incremento della PI.

Se poi i valori della PI si avvicinano a quelli della pressione arteriosa sistemica si verifica un brusco aumento di quest’ultima accompagnata da bradicardia e bradipnea. Questo fenomeno viene indicato come “effetto Cushing” ed il meccanismo con cui si instaura è neurogeno, e rappresenta un riflesso bulbare scatenato dall’ischemia di questo segmento del nevrasse. Esso si accompagna a vasocostrizione periferica. Quando i meccanismi di autoregolazione hanno prodotto una vasodilatazione massiva in seguito ad un aumento della PI e alla riduzione della pressione di perfusione non può più avvenire un ulteriore aumento del flusso ematico cerebrale in risposta ad eventuali aumentate richieste metaboliche locali. Ciò determina la comparsa di segni del disturbo metabolico ipossico, con diminuzione della fosforilazione ossidativa ed aumento della glicolisi anaerobia. Ciò costituisce un ulteriore stimolo alla vasodilatazione, provocata dall’acidosi lattica e dall’aumento della pressione parziale di CO2, che agiscono direttamente sulle cellule muscolari lisce dei vasi.

Un altro elemento di notevole importanza è il fatto che l’ipossia cerebrale, conseguenza indiretta dell’aumentata PI, finisce per condurre ad una “ischemia ipossica” con conseguenti lesioni cerebrali a loro volta favorenti l’edema. Infine bisogna ricordare che in caso di patologie cerebrali, dove spesso i meccanismi di autoregolazione sono alterati, aumenti anche minori di PI possono provocare ischemia e ipossia cerebrale. Pertanto più sono integri i meccanismi di autoregolazione cerebro-vascolare maggiore è l’aumento di PI che può essere tollerato senza disturbo della funzione cerebrale. Variazioni acute ed improvvise della PI provocano effetti più gravi di variazioni che si instaurano lentamente. Inoltre in caso di IE i valori di PI non sono costanti, ma subiscono fluttuazioni anche notevoli in tempi relativamente brevi. È stato dimostrato che sono particolarmente importanti ampie variazioni della PI che avvengono ad intervalli di 15-30 minuti e che sono indicate come onde “A” (plateau waves). Queste mantengono per considerevoli periodi la PI su valori assai vicini alla pressione arteriosa sistemica e spesso sono associate a peggioramenti temporanei delle condizioni neurologiche del paziente. La patogenesi delle “plateau waves”, che tipicamente si verificano durante stadi avanzati di ipertensione endocranica associata a processi occupanti spazio, è da correlare ad una temporanea dilatazione arteriosa, che può avere anche una base fisiologica. Tali onde possono avvenire durante la fase REM del sonno quando si verifica ritenzione di CO2, oppure al risveglio, quando la dilatazione arteriosa accompagna l’aumento del metabolismo cerebrale: oppure possono venire precipitate da aspirazione tracheale, cambiamenti di posizione del capo, febbre, o altri stimoli che inducano una rapida variazione del tono vascolare cerebrale. Esse riflettono lo scompenso dell’autoregolazione cerebrale e possono provocare una significativa diminuzione della pressione di perfusione tale da determinare un danno irreversibile del SNC.

ERNIE CEREBRALI

In corso di IE parti dell’encefalo, in virtù delle sue proprietà viscoso-elastiche, possono dislocarsi attraverso normali aperture della dura e dell’osso, con formazioni di ernie cerebrali, responsabili di patologiche compartimentazioni intracraniche, a cui possono ascriversi i più temibili e dannosi effetti della IE.
Prima di considerare le complicazioni meccaniche e circolatorie della IE, dovute alla formazione di ernie cerebrali, può essere utile ricordare le normali compartimentazioni della cavità cranica. La principale suddivisione è fra spazio sovra e sottotentoriale la cui separazione è data dal tentorio del cervelletto. La falce cerebrale separa lo spazio sovratentoriale in una metà destra e sinistra, mentre la piccola ala dello sfenoide fà da limite tra la fossa cranica anteriore e media.

Patologiche compartimentazioni intracerebrali si verificano quando lesioni massive o ernie cerebrali iniziano ad ostruire l’incisura del tentorio o il forame magno. Ne risulta che le pressioni generate dal liquor e dalla pulsazione arteriosa non vengano più liberamente trasmesse attraverso il tessuto e gli spazi fluidi dell’asse cranio-spinale. Di conseguenza si sviluppa un gradiente di pressione tra un compartimento e l’altro e, in tali condizioni, anche piccole variazioni di volume determinano grandi variazioni di pressione, che a loro volta accentuano ed accelerano il processo di erniazione. Quindi, il meccanismo che dà luogo alla formazione di ernie cerebrali non dipende strettamente dal valore assoluto della PI ma dal gradiente di pressione tra un compartimento intracranico e l’altro. Ciò è particolarmente evidente, ad esempio, nelle ernie uncali, dove gradienti locali di pressione possono far spostare parte del lobo temporale nello iato del tentorio quando la IE è ancora compensata e quindi in assenza di valori di PI significativamente elevati. Vi sono tre maggiori quadri di erniazione sopratentoriale che possono essere identificati dal loro stadio finale: 1) ernia cingolata; 2) ernia centrale o transtentoriale; 3) ernia uncale.

L’ernia cingolata compare quando un aumento di pressione nel settore dorsale di un emisfero fà sì che il giro cingolato si insinui sotto il margine libero della falce cerebrale, sopra il corpo calloso, espandendosi verso l’emisfero opposto. L’ernia cingolata si verifica soprattutto al di sotto della parte anteriore della falce, dove normalmente vi è uno spazio libero tra quest’ultima e il corpo calloso ed è in rapporto con processi occupanti spazio situati nel lobo frontale. Il maggior danno prodotto dall’ernia cingolata è dovuto alla distorsione e compressione di vasi sanguigni, in particolare della vena cerebrale interna e dell’arteria cerebrale anteriore omolaterale con conseguente ischemia, congestione venosa ed edema cerebrale che a loro volta accentuano il processo espansivo. È possibile anche un’erniazione retroalare dei lobi frontali oltre la piccola ala dello sfenoide con possibile compressione delle carotidi e conseguente diffusa ischemia emisferica.

L’ernia centrale o transtentoriale è il risultato finale di uno spostamento verso il basso degli emisferi e dei nuclei della base con compressione e dislocamento del diencefalo e del mesencefalo rostrocaudalmente attraverso l’incisura del tentorio. Essa è provocata essenzialmente da lesioni dei lobi frontali, parietali e occipitali e da lesioni extracerebrali situate in corrispondenza del vertice e dei poli fronto-occipitali. In caso di lesioni espansive unilaterali l’ernia cingolata in genere precede l’erniazione trastentoriale. Nell’ernia transtentoriale, come nell’ernia uncale, si possono verificare alterazioni da ostacolo al deflusso liquorale e di tipo circolatorio con secondarie lesioni ischemiche e/o emorragiche a livello del tronco. In particolare il dislocamento del mesencefalo e del ponte verso il basso determina uno stiramento delle branche perforanti della arteria basilare, che essendo ancorata al circolo del Willis non può spostarsi verso il basso.
L’ernia uncale consiste nell’impegno della parte infero-mediale del lobo temporale nello spazio tra la faccia laterale del mesencefalo ed il bordo libero del tentorio. È tipicamente provocata da lesioni espansive del lobo temporale e da estesi processi occupanti spazio come ematomi subdurali ed epidurali. Se l’ernia è unilaterale spinge il tronco contro il margine opposto del tentorio, se invece è bilaterale il tronco è compresso dai due unci erniati. L’ernia uncale distorce e deforma il tronco cerebrale sia per compressione diretta, sia indiretta spingendolo contro il margine controlaterale del tentorio. Tale evenienza si verifica specialmente se l’evoluzione dell’impegno è lenta. Questi spostamenti danno luogo a modificazioni circolatorie e ad un ostacolo al deflusso liquorale sia per compressione dell’acquedotto che degli spazi subaracnoidei in modo da interferire con la circolazione del liquor. Questa ostruzione fa sì che il liquor non possa uscire dal sistema ventricolare per compensare aumenti di volume del cervello cosicchè la pressione nella cavità sopratentoriale sale al di sopra di quella della fossa posteriore.

Le alterazioni circolatorie consistono in primo luogo nella compressione dell’arteria cerebrale posteriore che decorre lungo il margine libero del tentorio con conseguente ischemia del lobo occipitale. Possono inoltre verificarsi lesioni ischemiche ed emorragiche a livello del tronco con caratteristico interessamento della sua porzione centrale dal diencefalo alla porzione inferiore del ponte. Tali alterazioni sono particolarmente importanti quando la lesione sopratentoriale si espande rapidamente. L’esatta patogenesi di queste alterazioni vascolari è dibattuta e sembra possa essere sia di origine arteriosa che venosa. I fenomeni di compressione e distorsione dei piccoli vasi che alimentano il mesencefalo, il ponte e il bulbo, nello stadio iniziale, possono essere reversibili, ma se persistono a lungo anche un’eventuale risoluzione dell’erniazione può essere fatale a causa di emorragie secondarie come risultato nel ripristino del flusso in un letto vasale precedentemente dilatato per effetto dell’ischemia.
L’impegno tonsillare o cono di pressione cerebellare consiste nell’erniazione delle tonsille cerebellari attraverso il forame magno con conseguente compressione del bulbo. L’ernia è di solito bilaterale e asimmetrica. In genere si verifica per processi occupanti spazio in fossa posteriore e con PI diffusamente elevata. L’erniazione tonsillare oltre ad un danno del bulbo per compressione diretta, determina anche una sofferenza ischemica nel territorio di distribuzione dell’arteria cerebellare postero-inferiore e delle arterie vertebrali.
Ernie sia sovratentoriali che tonsillari possono verificarsi come conseguenza di una rachicentesi in pazienti anche con modesta IE. La sottrazione di liquor per via lombare comporta infatti una cospicua differenza di pressione tra cavità cranica e canale rachideo che spinge l’encefalo ad erniarsi.

CLINICA

In contrasto con la molteplicità dei meccanismi fisiopatogenetici, la sintomatologia dell’IE è piuttosto uniforme.   È tuttavia utile tenere distinti i sintomi tipici dell’IE da quelli provocati dalle sue più frequenti complicazioni: le ernie transtentoriali e quelle delle tonsille cerebellari nel forame magno. I sintomi principali sono rappresentati, nel primo caso da cefalea, vomito, papilla da stasi, nausea e vertigini. Nel secondo caso, sia in relazione all’entità dell’incremento volumetrico sia al tempo in cui esso si instaura, saranno presenti disturbi dello stato di coscienza corrispondenti al progressivo deterioramento rostro-caudale (Plum e Posner, 1966) in rapporto con lesioni a livelli diversi delle strutture sottocorticali, disturbi dell’oculomozione, bradicardia, disturbi del respiro.

La cefalea viene generalmente attribuita non tanto alla aumentata PI, quanto piuttosto allo stiramento delle terminazioni nervose dei vasi del poligono di Willis e della dura madre, nonché alla distorsione dei seni venosi e delle vene, dell’arteria meningea media, dei nervi cranici e radici cervicali. Essa compare per lo più a crisi, specie inizialmente, per diventare poi continua. Talora è più accentuata in alcune ore del giorno specialmente al mattino ed aumenta nel sonno secondariamente alla ritenzione di CO2. Il dolore può essere diffuso, localizzato o di tipo “nevralgico”. Nel caso dei tumori cerebrali la cefalea non ha alcun significato in rapporto alla localizzazione; nei casi di tumori della fossa posteriore il dolore può essere infatti sia occipito-cervicale che frontale, poiché il tentorio riceve un’innervazione sensitiva anche dalla prima branca del nervo trigemino. Soggettivamente la cefalea viene avvertita con caratteri variabili, spesso a tipo “urente” o come “se qualcosa premesse dall’interno”, o ancora come “se il cervello battesse contro la nuca” ricordando in quest’ultimo caso la cefalea da ipotensione ortostatica. Di solito essa viene accentuata da tutte quelle manovre che determinano un aumento della PI, quali l’abbassare il capo, lo starnutire, il ponzare, mentre si riduce con il vomito. Ciò è dovuto all’iperventilazione che accompagna di solito questo sintomo. È tuttavia da rilevare che la cefalea in alcuni casi può mancare del tutto o essere di lieve entità e ben tollerata. Rientra infatti nella comune pratica neurologica l’osservazione di tumori cerebrali decorsi senza cefalea. La cefalea è comunque il sintomo più frequente sia essa in associazione ad altri sintomi e/o segni neurologici di aumento della PI o come sintomo isolato. Elemento di valore diagnostico non sarà tanto l’intensità o il carattere della cefalea quanto piuttosto la sua comparsa in un soggetto che mai in precedenza ne aveva sofferto.

Il vomito è sintomo meno costante della cefalea, ma talora può manifestarsi in assenza di questa, benchè non di rado si presenti all’acme di una crisi cefalalgica. Il vomito compare per lo più al mattino, non in relazione con i pasti spesso accompagnato da nausea. Spesso nei tumori cerebrali viene descritto come “esplosivo, a getto” e cioè improvviso e non accompagnato da nausea. Questa evenienza è piuttosto rara e si verifica per lo più nei tumori della fossa posteriore, specialmente del IV ventricolo nei bambini. Esso è dovuto all’irritazione diretta dei nuclei del nervo vago da parte della neoplasia. Il vomito può comparire associato a cefalea in coincidenza con bruschi movimenti del capo. In questi casi si tratta di tumori del III e del IV ventricolo oppure di erniazione delle tonsille cerebellari e si ritiene dovuto all’irritazione diretta da parte del processo patologico dei centri nervosi relativi. Il vomito nei bambini è forse più caratteristico della cefalea come sintomo di aumentata PI. Può infatti avvenire nei bambini che la cefalea dopo un po’ di tempo scompaia, per diminuzione della PI conseguenza dell’allargamento delle suture ossee ed all’aumento di volume del capo, mentre il vomito rimane inalterato. È molto importante segnalare che nei bambini con tumori del IV ventricolo il vomito può accompagnarsi a dolori addominali, specie appendicolari. Non è pertanto eccezionale che piccoli pazienti giungano alla diagnosi di tumore in fossa posteriore dopo aver subito un inutile intervento di appendicectomia.

La papilla da stasi o papilledema per gli anglosassoni, è il segno obiettivo più importante dell’ipertensione endocranica. Essa è determinata dall’ostacolo al ritorno venoso dall’occhio con congestione delle vene retiniche e dall’edema della papilla ottica. A questi meccanismi va ancora aggiunto il fatto che all’aumentata PI non fa riscontro un aumento parallelo della pressione intraoculare. L’entità dell’edema papillare è molto varia. Anzitutto è da rilevare che, nonostante rappresenti il sintomo obiettivo più importante dell’ipertensione endocranica, la papilla da stasi può mancare nel 20-30% dei casi.  È soprattutto quando l’aumento di pressione endocranica si sviluppa molto lentamente che non si instaura l’edema papillare; in questi casi in suo luogo si può avere un accentuato grado di miopia, un aumento di pressione endo-oculare o una compressione sui nervi ottici. Anche quando l’aumento di pressione intracranica è molto rapido può mancare la papilla da stasi; in questi casi, però, si trovano sovente emorragie retiniche o subjaloidee.

Del quadro clinico dell’ipertensione endocranica fanno parte anche disturbi psichici. È opportuno ricordare che alterazioni della personalità possono essere espressione di lesioni a livello dei lobi frontali, corpo calloso, lobi parietali e sistema limbico uni o bilaterale. Indipendentemente dalla sede essi compaiono tardivamente quando la PI diviene alta e sono caratterizzati da rallentamento dell’ideazione, tendenza al sopore, delirium, allucinazioni, stato confusionale. Con il progredire della IE i disturbi psichici si aggravano fino allo stupore e gradualmente fino al coma in cui compaiono irregolarità respiratorie, aumento della pressione arteriosa e bradicardia. In questi casi l’interessamento delle strutture del tronco e specialmente della sostanza reticolare attivatrice è considerato la causa delle alterazioni dello stato di coscienza. Quando le alterazioni dello stato di coscienza dominano il quadro clinico esse sono l’espressione di aumento acuto della PI o espressione delle sue complicanze quali le ernie tentoriali o le ernie tonsillari.
In caso di erniazione, oltre ai classici segni clinici di aumento di PI possono comparire, assumendo significato clinico e prognostico rilevante, anche alterazioni del tono muscolare con ipertonia della muscolatura assiale e degli arti con capo iperteso simili agli spasmi da decerebrazione, alterazioni del sistema autonomico con disturbi cardiaci, respiratori e della regolazione termica.

L’ernia temporale spesso si accompagna a lesioni emorragiche dei corpi mammilari e produce gravi lesioni a livello del tronco cerebrale o per compressione diretta o indiretta contro il margine controlaterale del tentorio.Tali spostamenti hanno per conseguenza modificazioni circolatorie quali emorragie da lacerazione dei vasi perforanti, emorragie da compressione venosa dei vasi che alimentano e drenano il mesencefalo e la parte superiore del ponte, ischemie del tronco più raramente. Queste complicazioni sono spesso causa di morte improvvisa e costituiscono l’incidente terminale più frequente nella morte per tumore cerebrale. Il sintomo premonitore e caratteristico dell’impegno transtentoriale è la paralisi omolaterale del terzo paio, inizialmente rappresentata dalla sola midriasi pupillare dapprima ancora reagente e successivamente del tutto non reagente (midriasi fissa) alla luce. La causa della precocità della midriasi rispetto al deficit oculomotorio risiede nell’iniziale disfunzione o distruzione delle piccole fibre pupillo-motorie (5 micrometri) rispetto alle altre fibre del III paio (15-18 micrometri).

Il nervo può essere compresso a due livelli: più frequentemente a livello del ligamento petroclinoideo mediale, meno comunemente nel punto dove esso passa tra l’arteria cerebellare superiore e l’arteria cerebrale posteriore. Le fibre pupillo-motorie sono situate in superficie a livello del punto di compressione. Lo spostamento del tronco encefalico contro l’opposto margine libero dello iato tentoriale è causa della comparsa di una emisindrome piramidale omolaterale dal lato dell’ernia. In alcuni casi manca la paralisi del III paio e può essere presente paralisi dell’abducente con diplopia nello sguardo verso il lato affetto. La paralisi dell’abducente è strettamente legata alla congestione venosa passiva a livello dei seni venosi basali e trasverso, che comprimono il nervo nel punto in cui esso perfora la dura sopra il clivus o il seno cavernoso. In alcuni casi sono presenti disturbi del campo visivo dovuti a disordini circolatori nel lobo occipitale causati dalla compressione della arteria cerebrale posteriore livello dello iato del tentorio. I sintomi sono l’emianopsia laterale omonima e la cecità corticale da strozzamento bilaterale delle arterie cerebrali posteriori spesso mascherati dai concomitanti disturbi dello stato di coscienza. I disturbi del campo visivo sono la regola quando la pressione liquorale supera i 500 mmH2O o il papilledema supera i 4 D.

Altri sintomi riportati nei casi di ipertensione che si esercita nello spazio sopratentoriale con conseguente ernia temporale sono caratteristici della disfunzione vestibolo oculare: la deviazione coniugata degli occhi con nistagno, in questo caso sono interessati il fascicolo longitudinale posteriore e la sostanza reticolare. Quando l’ernia temporale si aggrava o si verifica acutamente si hanno crisi toniche definite a tipo “rigidità decerebrata” con iperestensione degli arti e del capo. Sono presenti, inoltre, disturbi della coscienza con stato di coma, disturbi del respiro e della regolazione termica a significato prognostico infausto. Per quanto riguarda i disordini della termoregolazione essi sono caratteristici della IE acuta mentre non compaiono nei casi di IE a lenta instaurazione e sono espressione o di interessamento dei centri regolatori ipotalamici oppure della catena di riflessi termoregolatori che si estende dall’area preottica attraverso l’ipotalamo al midollo spinale. Sono infine da ricordare come possibili segni di ernia temporale disturbi di natura ipofisaria come il diabete insipido e disturbi elettrolitici espressione di turbe circolatorie in tale sede.
Nei casi di impegno tonsillare i sintomi caratteristici sono la rigidità nucale, le crisi in opistotono e i segni di compressione delle funzioni “vitali” autonomiche.

Se il fenomeno si realizza lentamente si ha come primo segno un ipertono dei muscoli nucali con capo fisso in iperestensione. Il capo può anche essere lievemente inclinato se l’impegno non è simmetrico: cosiddetto “capo da cerimonia”. L’iperestensione del capo si accompagna a dolori nucali ed interscapolari ed è una risposta muscolare riflessa alla pressione esercitata sulla dura a livello pontino; le lesioni situate a livelli più alti si accompagnano, infatui, a flaccidità dei muscoli cervicali. Se l’impegno si aggrava o si manifesta acutamente compaiono i cosiddetti “cerebellar fits”, crisi caratterizzate da opistotono ed iperestensione degli arti con iperpronazione delle mani a tipo “rigidità decerebrata” del preparato animale per lesione al di sotto del nucleo rosso.

La sintomatologia neurovegetativa oltre alla perdita di coscienza presenta due fasi distinte in relazione all’incremento della IE; nella prima fase sono presenti aumento della pressione arteriosa sistemica, con bradicardia e bradipnea mentre un ulteriore aumento delle PI provoca ipotensione, tachicardia e tachipnea. L’aumento della pressione arteriosa sistemica e la bradicardia e bradipnea conseguenti sono noti come “riflessi di Cushing” e sono di per sé sintomi di IE scompensata. Si tratta di un fenomeno riflesso modulato a livello del centro vasomotore bulbare e delle strutture paramediane bilaterali nella regione caudale del IV ventricolo sensibili all’aumento della pCO2 che provoca vasocostrizione periferica, bradicardia e bradipnea. Allorquando anche questo meccanismo è scompensato dall’ulteriore aumento della PI compaiono tachipnea, asma cardiaco, respiro periodico, tachicardia, exurasistoli AV, ritmi bigemini, alterazioni del tratto ST-T mentre la pressione arteriosa cede subitaneamente con edema polmonare, cianosi, sudorazione ed ipertermia, fino alla paralisi respiratoria.

FORME CLINICHE

Per quanto riguarda il decorso delle sindromi da IE sottese da edema cerebrale, vi sono importanti differenze: anzitutto si possono avere forme acute con decorso fulminante, quali si riscontrano nelle emorragie, rotture di aneurismi, processi infiammatori, avvelenamenti, neoplasie cerebrali maligne. La perdita di coscienza in questi casi è precoce e rapidamente compaiono segni di compromissione del tronco. Il quadro può essere aggravato da ostruzioni delle vie respiratorie. Di solito l’edema cerebrale acuto compare da poche ore a uno-due giorni dopo l’evento patogeno.
Le forme subacute invece danno una sintomatologia progressivamente ingravescente cosicché si possono con difficoltà differenziare dai tumori cerebrali. Fra le cause più importanti si hanno l’ipertensione maligna, l’avvelenamento da CO.

Esistono poi forme ricorrenti date da crisi ripetute di IE. Questo succede specialmente nei tumori cerebrali, nelle malattie cardio-vascolari. Se l’edema cerebrale non si accompagna ad anossia ed a modificazioni metaboliche e circolatorie può essere suscettibile di remissione completa, compatibilmente con la causa che l’ha prodotto. Se invece si tratta di un edema complicato compaiono alterazioni irreversibili del tessuto cerebrale quali atrofie, necrosi e sclerosi della sostanza bianca, necrosi corticali.
Un cenno particolare meritano quelle forme che vanno sotto il nome di “pseudotumor cerebri” (PTC) o “ipertensione intracranica benigna”. Si tratta di un edema cerebrale diffuso con papilledema, in assenza di segni neurologici focali e di lesioni dimostrabili neuroradiologicamente. Colpisce prevalentemente soggetti di giovane età di sesso femminile a tipologia obesa.

Sono riportati 4 diversi meccanismi eziopatogenetici:

a) aumento del contenuto ematico cerebrale provocato da una alterazione dell’autoregolazione del flusso ematico cerebrale;

b) ipersecrezione di liquor;

c) ostacolo di flusso e/o riduzione del riassorbimento liquorale, attualmente ritenuta l’ipotesi più attendibile confermata da studi con cisternografia radioisotopica;

d) l’edema cerebrale che comprometterebbe il riassorbimento del liquor a livello della convessità cerebrale.

La genesi dell’edema è incerta; è possibile che esso sia secondario al passaggio di liquor dai ventricoli al tessuto interstiziale, ma potrebbe essere anche di tipo vasogenetico.

Il quadro si presenta con papilledema e talora con paralisi del VI paio di nervi cranici, probabilmente dovuto a spostamento verso il basso del tronco encefalico. Molto importante è il fatto che agli esami radiografici con mezzi di contrasto e soprattutto alla TC i ventricoli appaiono piccoli e le cisterne perimesencefaliche ridotte o obliterate. La diagnosi è principalmente clinica e si basa sulla presenza di una sindrome da IE, con edema della papilla e sulla mancanza di segni o sintomi focali. Il liquor è negativo. La RMN non sembra essere in grado di identificare lesioni specifiche dello PTC: in particolare la forma ed il volume dei ventricoli non risultano significativamente diversi dai controlli.

La maggior parte dei pazienti presenta una regressione della sintomatologia, spontanea o indotta dalla terapia, in media entro 5 mesi dall’esordio. Solo una piccola percentuale di casi (5-10%) va incontro a deficit visivi (riduzione permanente dell’acuità visiva da atrofia o subatrofia ottica); circa il 10% dei casi di PTC recidiva anche a distanza di anni. Si possono inoltre segnalare altre possibili cause non tumorali di IE. Una sindrome da IE benigna è stata osservata nei bambini, dopo sospensione di terapia corticosteroidea, o ancora in bambini o adolescenti per eccessive dosi di tetracicline e di vitamina A.Un aumento della pressione liquorale con papilledema è stata inoltre osservata in caso di ipo- o iperadrenalismo, mixedema, ipoparaniroidismo e occasionalmente in rapporto all’assunzione di estrogeni, tetracicline e fenonazine.

PROTOCOLLO TERAPEUTICO
Soglia di trattamento o allarme

Una pressione intracranica che resti stabilmente al disopra di un valore soglia per almeno 5 minuti deve essere considerata una seria emergenza e affrontata con molta determinazione e altrettanta ragionevolezza. Non serve agitarsi, ma è ancora peggio trascurare o sottovalutare questa situazione. La individuazione della soglia deve tener conto di almeno tre fattori:

  • Età: Sino a 6 anni consideriamo normali ICP non superiori a 5 mmHg
  • Distanza dal trauma: Mentre nelle prime giornate 20 mmHg nell’adulto sono la soglia per il trattamento, nelle fasi successive una ICP sino a 25 mmHg con una CPP > 70 mmHg è accettabile
  • Scatola cranica integra o “aperta” (paziente decompresso): se la scatola è aperta consideriamo la ICP letta come inferiore alla reale pressione tissutale di circa 10 mmHg. 

Procedura diagnostica immediata

Prima di ricorrere a terapie specificamente orientate e ridurre il volume intracranico segui il percorso mentale suggerito, che è sintetizzato nell’ algoritmo e nella sequenza seguente.

  1. Identifica un eventuale deterioramento acuto: controlla le pupille e la risposta motoria. Se ci sono deterioramenti acuti programma una TAC urgente e nel frattempo procedi al punto 2. Se non ci sono deterioramenti acuti procedi comunque col punto 2 ma approfondiscilo con più calma e prenditi il tempo necessario per vedere gli effetti del tuo trattamento (stiamo parlando di una mezz’oretta al massimo) prima di fare una TAC.
  2. Escludi le principali cause “facilmente risolvibili”:
    Cause di aumentata pressione venosa cerebrale
    Posizione del collo e del capo: deve essere in asse, senza flessioni del capo e senza torsioni. Prova ad alzare il malato di qualche grado, mantenendolo in posizione corretta col capo ma agendo sul letto per ottenere un moderato anti-Trendelenburg
    Libertà delle vene del collo: verifica lacci, bende per la tracheo, medicazioni o altre forme di compressione.
    Ipertensione venosa toracica: verifica che non ci sia il minimo disadattamento dal respiratore, adatta il malato e curarizzalo se necessario. Controlla che il respiratore sia ben programmato (PEEP, ecc).
    Escludi pneumotorace, emotorace o versamento pericardico. Controlla sempre se le giugulari appaiono distese.
    Cause di aumentata pressione arteriosa e/o di vasodilatazione cerebrale
    Escludi che il malato “percepisca dolore”. Verifica che la vescica sia drenata, che non ci sia ristagno gastrico e stimolo al vomito; verifica che le ginocchia non siano troppo estese. Se ci sono fratture verifica che non ci siano cause di disallineamento
    Escludi che il malato abbia una puntata ipertensiva arteriosa
    Controlla le eventuali infusioni di catecolamine, che potrebbero avere avuto una accellerazione od una sospensione temporanea
    Escludi che il malato abbia avuto una riduzione acuta della pressione arteriosa
    Escludi che il malato abbia un aumento della temperatura: ci sono brividi? Misura la t° e controlla come evolve. Sospetta sempre un aumento della temperatura in evoluzione quando un malato appare vasocostretto e orripilato
    Controlla le pupille e i movimenti spontanei del malato: potrebbe essere in corso una crisi epilettica? A volte la dilatazione acuta di una pupilla è l’ unico segno di una crisi.
    Controlla che la sedazione sia in corso al dosaggio prescritto
    Verifica saturazione arteriosa ed End Tidal CO2
    Controlla una emogas ed escludi ipossiemia ed ipercapnia. In un traumatizzato cranico un livello di CO2 superiore al controllo precedente (anche se inferiore a 40 mmHg) causa vasodilatazione cerebrale pericolosa
    Controlla una CO-Ossimetria dalla giugulare retrograda
    Cause sistemiche disturbanti il sistema intracranico
    C’è una iposodiemia? O comunque l’osmolarità plasmatica sta scendendo
    Si è verificata una alterazione nell’infusione dei liquidi programmati?
    E’ in corso una reazione allergica?
    Chiedi all’ infermiere responsabile se ha notato qualcosa che possa essere in relazione con il peggioramento dell’ IC
  3. Tratta le cause “facilmente risolvibili”
    Se hai individuato un problema, trattalo. Considera le seguenti annotazioni relative a tre problemi particolari:
    Sedazione: il nostro standard prevede due schemi, uno da applicare per i primi 3 giorni, quando è utile poter aprire “finestre” nella sedazione per esaminare il malato, ed uno da utilizzare nei giorni successivi, quando invece tale necessità è meno rilevante. Nei primi 3 giorni usa una infusione di Propofol (da evitare nei bimbi) associata ad una infusione di Fentanest. Dopo le prime 3 giornate continua il Fentanest e sostituisci il Propofol col Valium.Iposodiemia. Se è presente una riduzione della sodiemia sotto i 140 mEq/l (o una brusca riduzione della sodiemia, superiore a 1 mEq/ora) correggila utili
    Infusione di soluzioni ipertoniche
    Mannitolo
    Frequenti controlli di quanto stai ottenendo. L’ obiettivo è un aumento della sodiemia di circa 1/2-1 mEq/ora

    Ipotensione arteriosa. Una pressione arteriosa sistolica inferiore a 110 mmHg non è accettabile. Deve essere corretta capendo perchè si è sviluppata e correggendo e le cause se possibile, altrimenti ricorrendo alle catecolamine. In pratica si procede normalizzando il precarico ventricolare e, se ciò non è sufficente, ricorrendo all’ infusione di catecolamine. Utilizza due siringhe, una contenente 200 mg di Dopamina ed una 2 fiale di Noradrenalina. Variane il dosaggio per riportare la Pressione arteriosa nei limiti di sicurezza.

  4. Escludi errori tecnici
    Il sistema di lettura dell’ICP è corretto?
    La linea è funzionante, senza bolle d’aria?
    Lo zero è accurato, cioè sia il trasduttore dell’ ICP che quello della MAP sono stati referenziati al meato uditivo esterno e lo zero è stato ricontrollato non oltre un’ora prima?
    I rubinetti sono ruotati nel senso appropriato?
    L’ onda dell’ICP è ben leggibile?
  5. Escludi indicazioni chirurgiche
    La causa più grave di ipertensione intracranica è lo sviluppo di una massa all’interno del cranio che può richiedere evacuazione chirurgica. Se non ci sono spiegazioni di altro genere per il rialzo di ICP o se l’ ICP restasse elevata nonostante la correzione delle cause individuate procedi ad effettuare una TAC e ad avvertire il neurochirurgo.
    Obiettivi del trattamento: gli obiettivi del trattamento sono non solo il riportare la ICP stabilmente al disotto dei valori soglia, ma contemporaneamente provvedere a ottimizzare la CPP. Nell’ adulto la CPP che vogliamo mantenere è di almeno 60 mmHg, meglio 70 mmHg. Nell’ anziano iperteso tale valore è probabilmente troppo basso.
    Dati necessari per orientare il trattamento: i dati necessari per orientare il trattamento sono vari, e dipendono dalla storia clinica del malato, dal dato TAC e dalla sua evoluzione, dai reperti intraoperatori, oltre che dal quadro rilevabile al momento. Leggi nel diario che orientamento era stato raggiunto sulla patogenesi: a volte (speriamo sempre più spesso) il frutto di approfondite discussioni è riportato nel diario clinico, dove deve essere rintracciato per evitare di reinventare tutto da capo. Bisogna, come minimo, disporre di
    1.una ICP ben leggibile,
    2.una MAP sicura,
    3.una PVC,
    4.una emogas arteriosa,
    5.una lettura della saturazione di Emoglobina nel bulbo della giugulare,
    6.una sodiemia,
    7.un emocromo.
    Sulla base dei dati disponibili imposta la terapia, avvalendoti anche degli schemi orientativi allegati nella prossima pagina:come regola generale esistono delle terapie che sono considerate trattamenti standard, e che vanno semplicemente usate secondo indicazioni (vedi i quadri seguenti), tenendo conto del “dosaggio” e delle complicazioni.

Trattamenti standard

  • Drenaggio liquorale
  • Mannitolo
  • Iperventilazione
  • Uso delle catecolamine per migliorare la CP

Le soluzioni ipertoniche provocano disidratazione cerebrale dovuta allo stabilirsi di un gradiente di pressione osmotica tra il plasma e il tessuto cerebrale, che è tanto maggiore quanto minore è il passaggio della sostanza attraverso la BEE. L’effetto inizia prontamente al momento della somministrazione e perdura per tutta la sua durata per poi dare luogo ad un effetto rebound con aumento della PI. Ciò può essere ottenuto con svariate sostanze in soluzione ipertonica (NaCl, Na bicarbonato, Na solfato, glucoso ecc.). Molto usato in passato è stato il glucoso al 50%, ma il suo effetto era troppo fugace. Più efficace si era dimostrata l’urea che però è stata abbandonata a favore del mannitolo. Un dosaggio di 0,25 g/kg di mannitolo ogni 3-4 ore è frequentemente efficace nel contenere la PI, ma in situazioni più gravi si deve salire a dosi di 1-1,5 g/kg di mannitolo in 1 ora e mezza che determina una notevole riduzione della PI, che inizia a risalire un quarto d’ora dopo la fine della somministrazione e ritorna al livello iniziale entro le 2 ore successive. L’osmolarità del plasma non deve comunque superare 320 mosm/1 per evitare complicanze da iperosmolarità plasmatica. Il mannitolo determina inoltre un aumento della pressione arteriosa mediante aumento del volume intravascolare, un aumento della deformabilità degli eritrociti ed emodiluizione con risultante diminuzione della viscosità ematica: queste variabili contribuiscono ad aumentare la vasocostrizione cerebrale diminuendo la PI, mantenendo tuttavia costante l’ossigenazione cerebrale.

L’efficacia della terapia con soluzioni ipertoniche è limitata da due fattori:

1) la quantità di soluto che attraversa la BEE con attenuazione del gradiente di pressione osmotica tra sangue e tessuto cerebrale;

2) la presenza di soluti osmoticamente attivi che compaiono nel tessuto cerebrale come risposta adattativa all’aumentata osmolarità plasmatica.

L’effetto rebound alla sospensione della somministrazione è in relazione ai due eventi precedentemente descritti in quanto, quando nel sangue cessa di essere immesso soluto ipertonico, il tessuto cerebrale risulta ipertonico rispetto al plasma e richiama acqua. Tale effetto è minimo con il mannitolo rispetto ad altre sostanze usate precedentemente quali urea, glucosio o glicerolo, dal momento che il mannitolo oltrepassa pochissimo la BEE. Quindi la terapia iperosmolare è indicata soprattutto in situazioni di IE acuta, con imminente minaccia di scompenso; il suo impiego è più discutibile quando è necessario un effetto più prolungato, anche perché somministrazioni ripetute comportano il rischio di iperosmolarità plasmatica, acidosi metabolica e insufficienza renale.

L’iperventilazione è considerata un metodo efficace per ottenere una rapida diminuzione della pressione parziale di CO2. Se la pressione parziale di CO2 scende al di sotto dei 20 mmHg, si possono verificare fenomeni di sofferenza ipossica del tessuto cerebrale dovuti ad eccessiva vasocostrizione. Quindi brevi cicli intermittenti di iperventilazione possono essere molto utili per abbassare la PI in situazioni di emergenza, come ad esempio per scongiurare un’imminente erniazione cerebrale.

Per quanto riguarda l’uso delle amine, non si tratta di utilizzare le catecolamine per normalizzare una Pressione Arteriosa inferiore ai livelli normali, ma di innalzare valori normali a livelli superiori per sfruttare l’autoregolazione pressoria del circolo cerebrale. L’ ipotesi cui ci si riferisce è che il malato disponga della capacità di vasocostringere le sue arteriole in risposta ad incrementi della Pressione Arteriosa, col risultato che il suo flusso ematico cerebrale resterà costante ma il suo volume ematico cerebrale si ridurrà. Se si realizza tutto ciò all’ aumentare della Pressione Arteriosa consegue una riduzione della pressione intracranica, che in genere viene ottenuta incrementando la Pressione Arteriosa del 15-20% piuttosto rapidamente. Attenzione al possibile scompenso ventricolare sinistro, dato che si induce una vera e propria crisi ipertensiva, non sempre tollerata da malati con ridotta riserva ventricolare. Se, invece, la ICP segue passivamente l’ incremento di MAP il risultato sarà un aumento di ICP ed una CPP stazionaria. In tal caso non esiste ragione per insistere e bisogna tornare lentamente al livello di MAP di partenza.

Trattamenti estremi

Prima di passare a trattamenti estremi valuta che ce ne sia la necessità, oltre a valutarne l’indicazione. Verifica che le cause correggibili siano state individuate e corrette, e che sia stata fatta la terapia standard. La decisione di ricorrere o non ricorrere alle tappe finali del trattamento non dovrebbe quasi mai essere presa da un unico medico. E’ il caso di consultarsi con un collega più esperto (ad esempio l’ aiuto di settimana) ed a volte è necessario affrontare la questione insieme al neurochirurgo, perchè anche se non ci sono masse chirurgiche potrebbe essere indicato ricorrere ad una decompressione funzionale.

Le indicazioni ai trattamenti estremi sono legate a due considerazioni: che ci sia ancora spazio terapeutico per fermare il processo patologico in atto e che ci sia tessuto nervoso recuperabile. In linea di massima queste condizioni si verificano in casi di pazienti giovani, con consumo di ossigeno cerebrale preservato, vittime di deterioramenti acuti. Sono molto meno verosimili in anziani, con evidenza di attività metabolica cerebrale gravemente depressa e con segni di danno del tronco instaurati da tempo. Se ci si orienta nel senso di ricorrere a trattamenti estremi è molto importante farlo presto, perchè ogni attesa in presenza di grave ipertensione intracranica si traduce in danni progressivi e peggioramenti dei risultati. Se si valuta che non si possa fare nulla di meglio per il malato tali peggioramenti sono espressione di un deterioramento inevitabile, ma se si tenta di recuperare il malato bisogna provvedere rapidamente.

Barbiturico: il trattamento medico estremo consiste nell’ utilizzo dei barbiturici. Essi vanno utilizzati con particolare attenzione alla instabilità emodinamica. Prima di iniziare ad infondere Pentothal verifica che la PVC sia adeguata, e che la pressione arteriosa non sia ai limiti. Prepara le catecolamine, che potrebbero divenire necessarie. Parti con una somministrazione di 250 mg in un paio di minuti, poi prosegui sino a caricare il malato con 1-2 grammi. A questo punto imposta una infusione di 4-8 grammi/die. Obiettivo del trattamento non è l’induzione di un coma barbiturico ma il ricondurre l’ICP sotto il valore soglia.
Decompressione: se il trattamento medico estremo non è in grado di controllare la ICP si pone il problema se ricorrere, o meno, alla decompressione chirurgica. Le stesse controversie che si pongono quando è in gioco la decisione se utilizzare un trattamento medico estremo sono presenti, e probabilmente in modo più grave, quando si debba decidere se procedere ad una decompressione chirurgica funzionale in un caso nel quale sia già stata esclusa la presenza di masse chirurgicamente evacuabili. La decisione deve coinvolgere i colleghi neurochirurghi ai quali devono essere fornite tutte le informazioni che possono essere utili per delineare le possibilità ed i problemi del paziente.

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